L'Iran tra fondamentalismo islamico, terrorismo e il virus Analisi di Lorenzo Cremonesi
Testata: Corriere della Sera Data: 31 maggio 2020 Pagina: 24 Autore: Lorenzo Cremonesi Titolo: «Pantano persiano»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA - La Lettura di oggi, 31/05/2020, a pag.24 con il titolo "Pantano persiano", il commento di Lorenzo Cremonesi.
Lorenzo Cremonesi
Che sia la fine della lunga stagione dell'espansione (e dell'egemonia) iraniana in Medio Oriente? Un anno fa sarebbe stata una domanda provocatoria, una sfida propagandistica per soddisfare la politica del pugno di ferro contro Teheran voluta da Donald Trump con la mossa del 2018: boicottare, e poi pretendere di rinegoziare, gli accordi internazionali firmati tre anni prima da Barack Obama sulla limitazione del programma nucleare iraniano. Eppure gli eventi degli ultimi mesi — il crollo del prezzo del petrolio, le cronache da Teheran che raccontano di un Paese in ginocchio per le sanzioni economiche dettate da Washington, gli effetti del coronavirus qui più violenti che altrove — fanno credere che il regime degli Ayatollah stia soffrendo una crisi profonda, radicale, persino esistenziale. «L'Iran è vittima di una depressione interna gravissima. La Repubblica Islamica non era mai stata tanto debole e destabilizzata dal tempo della sua nascita con la rivoluzione khomeinista del 1979», sostiene Eugene Rogan, docente di Storia del Medio Oriente a Oxford, particolarmente attento alle tensioni tra i due universi musulmani, quello sciita (minoritario) e quello sunnita. «Non siamo in grado di capire se la formula della coesistenza tra i religiosi radicali ispirati dalla Guida Suprema, Ali Khamenei, e i pragmatici legati al presidente Hassan Rouhani, coadiuvato dal suo accorto ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, permetterà all'attuale governo di sopravvivere. Ma certo il tracollo non è mai stato tanto incombente», aggiunge il celebre politologo francese esperto di radicalismo islamico Gilles Kepel. Per comprendere la dimensione delle difficoltà iraniane è necessario partire dalla caduta del prezzo del greggio sul mercato mondiale. Nel 2018 un barile di petrolio valeva oltre 65 dollari; nei primi quattro mesi del 2020 il suo valore medio è precipitato intorno a 35, con punte negative fino a 12 dollari. Tutte le economie fondate sul greggio soffrono. L'Iran di più, appesantito e penalizzato dall'embargo. I rapporti della Banca Mondiale lo registrano da settimane. E dai tempi dell'inasprimento delle sanzioni volute da Donald Trump — tre anni fa — che il prodotto nazionale lordo iraniano continua a scendere. Dal 1° aprile al 31 dicembre 2019 è diminuito almeno del 7,6 per cento rispetto ai mesi precedenti; entro fine 2020 è previsto un ulteriore catastrofico crollo del 37 per cento. Contribuisce la pessima gestione dell'emergenza sanitaria, condita dai tentativi del regime di censurare i dati del contagio. Negata, o comunque fortemente sottovalutata e poi sottostimata nelle settimane iniziali, la pandemia ha causato molte più vittime di quanto è stato dichiarato. Secondo i dati del ministero della Sanità «aggiornati» al 23 maggio, i morti sono 7.359, i contagiati 133.521, i ricoverati 2.633, i guariti 104.720. Ma secondo le organizzazioni umanitarie internazionali, come Medici senza Frontiere, sono molti di più. Ci sarebbero, per esempio, oltre diecimila contagiati tra medici e infermieri, contro gli 800 (di cui un centinaio morti) dichiarati dalle autorità il 21 maggio. II virus sarebbe tuttora particolarmente virulento in almeno sei delle 31 province del Paese: Khuzestan, Lorestan, Korasan settentrionale, Bushehr, Balochistan, Azerbaigian orientale. In particolare, nel sudest del Khuzestan sono raccolte le industrie del polo petrolchimico, dove il tasso di contagio, spaventoso, ha obbligato alla serrata e aggravato il danno economico. Questo contribuisce a minare la fiducia nel regime, persino tra i religiosi. «Uno Stato islamico non può mentire. La sua popolarità si fonda anche su questo assunto. Perciò ha scandalizzato avere taciuto e detto falsità per cinque lunghi giorni dopo l'abbattimento del volo di linea ucraino l'8 gennaio scorso da parte della contraerea nazionale. Oggi gli iraniani credono meno all'impegno statale contro il virus», commenta Kepel. II riferimento è all'incidente avvenuto nei cieli di Teheran e costato la vita a 176 passeggeri, quando i militari iraniani stavano organizzando la rappresaglia dopo l'assassinio compiuto dagli americani, il 3 gennaio a Bagdad, del loro massimo esponente militare, il generale Qassem Soleimani, e di alcuni leader delle milizie sciite irachene. Tra le vittime sul volo c'erano decine di esponenti delle classi medio-alte iraniane della diaspora canadese, i cui familiari sui social non hanno risparmiato critiche di fuoco contro lo stesso Khamenei, che pure da trent'anni rappresenta la continuità con la figura di Khomeini. «In realtà il malcontento delle piazze per le difficoltà economiche si era già rifatto vivo durante le violente manifestazioni di metà novembre, represse nel sangue dalla polizia e costate centinaia di morti. Oggi il Paese è una polveriera pronta a esplodere. Il regime teme una controrivoluzione. Si è sforzato di censurare le rivolte. Ha tentato di bloccare i video terribili delle vittime dell'aereo ucraino, che pure sono girati a lungo sui social tra Teheran e Bagdad», dice Rogan. e Inevitabilmente, le difficoltà interne si amplificano nella politica estera. Ma su questo è necessario un passo indietro. L'Iran fu infatti il grande beneficiario dell'invasione americana per rovesciare il regime di Saddam Hussein nella primavera del 2003. Da allora l'Iraq è diventato una sorta di protettorato di Teheran. I maggiori esponenti dei movimenti sciiti iracheni (specialmente lo storico Dawa), perseguitati per decenni dai sunniti del partito Baath di Saddam Hussein, tornarono in patria dall'esilio iraniano e si dimostrarono quasi sempre obbedienti agli ordini dei loro mentori di Teheran. E sempre stato l'Iraq, con una popolazione sciita che tocca il 65 per cento dei 40 milioni di abitanti, la vera cartina di tornasole della nuova politica di potenza iraniana. Grazie alla continuità territoriale garantita dall'Iraq, l'Iran potè beneficiare di contatti diretti con il regime alawita (una setta sciita) di Bashar Assad in Siria e con gli sciiti libanesi e in particolare la loro forte milizia dell'Hezbollah (il Partito di Dio) impegnata nello scontro militare con Israele. Ancora: attraverso l'Iraq, gli ayatollah iraniani iniziarono a influenzare pesantemente le minoranze sciite sparse tra Emirati, Yemen e persino Arabia Saudita. Un pungolo sciita nel sancta sanctorum dell'identità sunnita a quattro passi dalla Mecca e da Medina. In breve: l'Iran fu in grado di porsi come il maggiore rappresentante politico e militare dell'universo sciita, che pure costituisce solo il 20 per cento dei quasi due miliardi di musulmani sulla Terra. Dall'altra parte il fronte sunnita si è dimostrato spesso diviso nel contrastare il campo sciita cementificato dal monopolio iraniano. e Ecco dunque la novità degli ultimi mesi: per la prima volta dal 2003 l'Iran è costretto ad accettare — di malavoglia — un premier iracheno più gradito a Washington che a Teheran. Non a caso lo scorso 19 maggio il «New York Times» titolava a tutta pagina che la nomina, pochi giorni prima. di Mustafa Kadhimi, 53 anni, a capo dell'esecutivo di Bagdad rappresenta lo specchio dei nuovi rapporti di forza. «L'Iran riduce le tensioni con l'Occidente. Dalla politica della provocazione alla cooperazione limitata», scriveva il quotidiano americano. Una svolta importante, soprattutto dopo che l'assassinio di Soleimani aveva persino indotto a temere l'eventualità di un conflitto armato tra Stati Uniti e Iran. Kadhimi è considerato un pragmatico, uno sciita laico figlio della vecchia borghesia irachena contraria ai metodi dittatoriali di Saddam. Ex giornalista, nel 1985 emigrò in Europa, per poi trovare rifugio negli Stati Uniti. Tornato a Bagdad dopo il 2003, venne nominato capo dei servizi segreti e lavorò nelle amministrazioni del premier radicale filo-iraniano Nuri al Malild e poi del più moderato Adel Abdul Mahdi, dimissionario nel novembre scorso. In particolare, Kadhimi ha cercato il dialogo con i giovani manifestanti di piazza Tahrir a Bagdad e delle città del sud, come Bassora e Nassiriya, che dallo scorso 1° ottobre a fine febbraio hanno chiesto pane, lavoro e soprattutto la fine del nepotismo e della corruzione. La repressione nei loro confronti per mano della polizia e delle milizie sciite irachene legate a Soleimani e agli apparati iraniani è stata durissima. La Commissione dei Diritti umani spedita dalle Nazioni Unite a investigare ha appena stabilito che i morti sono stati più di 500, almeno ottomila i feriti e oltre roo i manifestanti rapiti e torturati. La Commissione ha messo chiaramente sotto accusa le milizie sciite, che oggi Kadhimi intende perseguire con il pieno sostegno americano. La sua personale amicizia con il presidente iracheno d'origine curda, Barham Salih, gli facilita inoltre il dialogo con le province del nord e con gli apparati militari del Pentagono ben legati ai Peshmerga. Un altro significativo segnale dell'indebolimento iraniano arriva dal Libano, prostrato dalla bancarotta dello Stato e in generale dal collasso dell'economia regionale, e dalla Siria, dove i servizi israeliani e americani riportano il graduale ritiro dei reparti dei Pasdaran (il corpo paramilitare iraniano impegnato nella difesa dai nemici interni ed esterni l'ordine instaurato con la rivoluzione khomeinista del 1979) assieme a quelli di Hezbollah, dal 2012 i veri garanti militari della sopravvivenza del regime di Bashar Assad contro le rivolte dell'anno precedente. «In Siria — commenta Rogan — la Russia di Putin è stata ben contenta di avere come alleati gli iraniani per salvare Bashar e tenere fuori gli americani. Ma adesso che hanno vinto e controllano Damasco, i russi preferiscono che l'Iran si faccia da parte». Kepel propone una spiegazione più generale: «I petrodollari sono stati per quarant'anni il motore dell'islam politico, sciita e sunnita". Svanita la loro rilevanza, anche la Repubblica degli Ayatollah ha molta meno forza. Non dimentichiamo che, sino a poco dopo la morte del presidente egiziano Nasser nel 1970, leader del panarabismo socialista, la politica nel mondo islamico non è mai stata divisa dalla disputa religiosa tra sunniti e sciiti». A riequilibrare le loro tesi pensa Vali Nasr, accademico americano d'origine iraniana, docente alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Washington: «Mi pare sbagliato enfatizzare soltanto la crisi iraniana, come se fosse fuori dal contesto regionale e internazionale. La crisi è globale. In Medio Oriente al virus si aggiunge per tutti il dramma della caduta del prezzo del greggio. Negli Stati Uniti più di 20 milioni di cittadini americani sono disoccupati. Le priorità sono diverse, l'Iraq o lo scenario yemenita — dove si confrontano iraniani e sauditi — appaino remoti, dimenticati». Nasr concorda nel considerare «un'importante novità» la scelta del nuovo premier iracheno, ma senza esagerare. «L'emergenza Covid-19 riduce i conflitti. In Yemen gli Houthi filo-iraniani adesso cercano il dialogo con Riad. Così, anche in Iraq nessuno vuole la guerra. In ogni caso, e basta questo, Kadhimi non avrebbe mai potuto essere eletto senza la luce verde iraniana: è una scelta tattica, non strategica. Oggi Teheran cerca di rimettere in sesto l'economia, non può sostenere l'Iraq in bancarotta, per questo ha bisogno della collaborazione americana», aggiunge. Quanto al rapporto tra Teheran e Mosca resta, secondo Nasr, il comune interesse a fare fronte contro gli Stati Uniti: «Sono quasi dieci anni che i loro soldati combattono spalla a spalla in Siria. Non sono rapporti che si cancellano facilmente, anche se è dai tempi degli zar che l'impero persiano è considerato un nemico». Dunque cosa succederà? «Teheran sta affrontando la destabilizzazione più grave dal 1979. Ma non credo che ci saranno rivoluzioni radicali, il sistema resta molto forte. Potrebbe arrivare un personaggio intermedio a favorire la transizione, come fu Gorbaciov nell'eclissi dell'Urss. Ma alla fine mi attendo piuttosto un Putin iraniano».
Per inviare al Corriere della Sera la propria opinione, telefonare: 02/62821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante