Cambogia: gli orrori di Pol Pot che troppo pochi conoscono Commento di Marco Valle
Testata: Il Giornale Data: 06 aprile 2020 Pagina: 25 Autore: Marco Valle Titolo: «Quel lager degli orrori dove Pol Pot torturava chi non era comunista»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 06/04/2020, a pag. 25, con il titolo "Quel lager degli orrori dove Pol Pot torturava chi non era comunista" il commento di Marco Valle.
Marco Valle
Il Centro per il ricordo del genocidio Khmer in Cambogia
Scendi dal taxi, paghi il biglietto d'ingresso e arrivi all'inferno. O, almeno, a una sua anticipazione terrena. È Tuol Sleng, il famigerato carcere S-21, oggi Museo del Genocidio. Svolti l'angolo ed entri in un girone dantesco. Ad attenderti una lunghissima, interminabile fila d'immagini in bianco e nero. Centinaia di volti, migliaia di occhi che ti scrutano, che t'inchiodano. Occhiate rassegnate, impaurite, sghembe ma anche sguardi coraggiosi. Indugi, ti fermi e osservi i volti di uomini e donne ancora sfidanti, insolenti. Fieri. L'ultimo saluto di un'umanità divorata dalla follia, inghiottita dall'ideologia. La Spoon River cambogiana. Tra le mura di questo vecchio liceo trasformato in mattatoio per quasi quattro anni, solerti carnefici imprigionarono, torturarono e uccisero chiunque fosse minimamente sospettato di dissentire dalla linea fissata dall'Angkar, la severissima, impietosa, onnipresente «Organizzazione», ovvero il partito comunista cambogiano, i khmer rossi; nulla più di un esercito di feroci termiti guidato da una banda di criminali istruiti nei licei creati dalla Francia sino al 1953 «protettrice» del regno di Cambogia o direttamente a Parigi come Saloth Sar, meglio noto come Pol Pot o il «fratello numero uno». Nella capitale francese il giovanotto benestante s'invaghì perdutamente di Robespierre e del gran terrore giacobino per poi passare ai «sacri testi» marxisti con una predilezione per le fumisterie di Sartre e Fanon e i deliri di Mao. Dopo un passaggio nella Jugoslavia titoista tornò in patria e eliminati i concorrenti divenne il leader assoluto e indiscusso del partito a cui impresse una linea ultra maoista. Il 17 aprile 1975, approfittando del collasso americano in Vietnam, i khmer rossi entrarono nella capitale stremata da anni di guerra e imposero la «dittatura del popolo», meglio di quella parte di popolo miliziani giovanissimi e contadini analfabeti che l'Angkar riteneva degno di vivere. Tutti gli altri erano nemici di classe, controrivoluzionari, spie e traditori. Gente da eliminare. Abolito il denaro, chiuse tutte le scuole e le industrie, le città furono svuotate in pochi giorni e milioni di persone furono spedite nelle campagne per essere «rieducate». Fu l'inizio del terrore rosso, un gorgo malefico che stritolò l'intero paese. La Cambogia si chiuse ermeticamente su se stessa e il micidiale ingranaggio iniziò a triturare velocemente i ceti dirigenti d'anteguerra, poi i professionisti, gli insegnanti, gli artisti, i bonzi, i commercianti, gli artigiani e chiunque parlasse una lingua straniera, portasse gli occhiali, indossasse un vestito «non regolare» (l'obbligo per tutti era un pigiama nero), pregasse un qualche dio. Non pago, nel 1976 il «fratello numero uno», ormai in preda alla paranoia, diede avvio a una purga di massa all'interno dello stesso partito. Giorno dopo giorno le stesse file dell'Angkar iniziarono ad assottigliarsi mentre le carceri si riempivano di altri traditori e nuove spie; considerati «inadempienti» o «revisionisti», gerarchi e semplici militanti finirono sulla loro stessa graticola, obbligati a confessare le cose più improbabili o a fare nomi di presunti complici. Per nessuno vi fu pietà. Tuol Sleng divenne il crocevia principale di questo calvario. Chiunque vi entrasse veniva fotografato, torturato, interrogato e ancora torturato. Tutto era proibito, non si poteva parlare, non era ammesso piangere o lamentarsi, mangiare un insetto e nemmeno suicidarsi: barriere di filo spinato circondavano le celle ricavate dalle aule scolastiche, un modo per impedire che i detenuti si ammazzassero. Mentre i più umili restavano incatenati al pavimento o rinchiusi in fetide celle, ai dirigenti in disgrazia veniva concesso un trattamento di «favore»: una branda arrugginita e una scatola di latta per i bisogni corporali. L'unica via d'uscita erano i camion che portavano i prigionieri a Choeung Ek, il campo della morte alla periferia di Phnom Penh. Per risparmiare le pallottole si uccideva con zappe e picconi, i bimbi venivano sbattuti contro gli alberi o infilzati dalle baionette. Dalle fosse comuni, 129 di cui 49 ancora intatte, sono stati riesumati 9mila corpi ma all'arrivo del monsone emergono regolarmente frammenti di ossa, brandelli di stoffa. Un sacrario ricorda la carneficina. Tutto s'interruppe il 7 gennaio 1979 quando i vietnamiti, stufi delle provocazioni di Pol Pot, invasero la Cambogia. Nel carcere ormai vuoto trovarono solo le foto e le macchie di sangue.
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