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Corriere della Sera Rassegna Stampa
28.12.2019 Amos Oz un anno dopo
Analisi di Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 28 dicembre 2019
Pagina: 46
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «E dal dolore nacque la scrittura»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/12/2019, a pag.46 con il titolo "E dal dolore nacque la scrittura" il commento di Lorenzo Cremonesi.

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Lorenzo Cremonesi


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Amos Oz

Gerusalemme 1952. Un mondo di sradicati, di profughi, di individui traumatizzati, sopravvissuti a tragedie corali in cui erano però soli, spesso incapaci di affrontare i loro dolori individuali, inadeguati di fronte al quotidiano. A tanti ebrei scampati allo sterminio nazista e immigrati fortunosamente nel Paese del latte e del miele «del deserto diventato giardino», come predicava allora martellante la propaganda sionista, mancavano intimamente le foreste verdi e umide dove da ragazzi andavano a sciare sui Carpazi, sui Tatra, nelle Alpi austriache; mancavano il tedesco e il francese della borghesia colta, lo yiddish degli shtetl. Avrebbero dovuto tornare sui banchi di scuola per imparare gli idiomi semitici dell'ebraico moderno, ma lo consideravano «troppo arabo», «orientale», primitivo, estraneo alla loro sensibilità culturale. Tanti tra loro erano immigrati ancora relativamente giovani, ma per tutto il resto della vita continuarono a frequentare i vecchi amici per parlare le lingue dell'infanzia, sempre più isolati dal resto d'Israele. Detestavano il sole violento, la calura ossessiva dei pomeriggi mediorientali; rifuggivano gli odori intrusi Spaesati Gli ebrei sopravvissuti alla Shoah erano a disagio nella realtà del Medio Oriente vi, acri, delle spezie e delle carni appese nelle bancarelle del mercato. Erano chiusi al nuovo, come ricci. Avevano impressi nella loro pelle i terrori dell'Olocausto, le umiliazioni dell'antisemitismo, il marchio della stella gialla. I loro incubi notturni erano costellati d'immagini di anziani picchiati arbitrariamente per strada, di sinagoghe bruciate, segnati dal terrore di essere denunciati dal vicino di casa. Se non si comprende tutto ciò non si possono cogliere i motivi del suicidio di Fania Mussman, la quale in quel grigio gennaio di quasi settant'anni fa, nella Gerusalemme divisa in due dalla guerra, decise che sarebbe stato meglio morire e lasciare solo il figlio dodicenne assieme al marito Yehuda Arieh Klausner, piuttosto che continuare a trascinarsi in una vita da profuga nell'anima. Quel bambino orfano era Amos Oz. In genere gli scrittori hanno un tema forte, che ne segna la vita e quindi la narrativa, le emozioni, la voglia di raccontarli per capirsi e farsi capire. Non è dunque strano che per il futuro Amos, destinato a diventare uno dei massimi scrittori israeliani, quel tema forte fosse appunto la scomparsa della mamma. Un evento drammaticamente personale, un trauma intimo, eppure anche profondamente legato alle vicende degli ebrei nel Novecento e alla storia In politica Si batteva per arrivare a due Stati separati: uno per gli ebrei e uno per i palestinesi della nascita d'Israele. «Lui in verità scrisse in mille modi lo stesso libro, al cuore delle sue opere ci fu sempre il desiderio nascosto o esplicito di esplorare le radici e le infinite conseguenze della morte di Fania», ha spesso notato la critica israeliana.

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Amos Oz 1939-2018

Non a caso nella nuova collana in edicola da oggi con il «Corriere della Sera» il primo titolo è Una storia di amore e di tenebra. In quest'opera Amos Oz cerca di fornire un racconto completo e maturo di quel suicidio. Vi aveva provato da giovane con Michael mio, il terzo titolo della collana in vendita dal n gennaio. Un libro fresco, per molti versi molto autentico. Vi si coglie l'irruenza del giovane sabra (ebreo nato in Israele) deciso a sfruttare l'energia offerta dalla società del Kibbutz dove risiedeva e però ricco del passato greve e fertile della sua storia famigliare. Ma in Una storia di amore e di tenebra quell'evento diventa epica, lo specchio di un Paese e della generazione dei suoi fondatori arrivati dalle rovine dell'Europa centro-orientale. Per ben oltre trent'anni ho frequentato regolarmente Amos per chiedergli interviste e commenti sui suoi libri e soprattutto sugli sviluppi politici del conflitto israelo-palestinese. E spesso in un modo o nell'altro siamo tornati a parlare delle radici del suo slancio letterario. Un mondo doloroso, che lui elaborava ogni volta con energia ammirevole. Mai avrebbe indugiato a piangersi addosso. Amos era uno scrittore civile. Un «intellettuale impegnato», si sarebbe detto anni fa. Pacifista scettico, credeva alla necessità del dialogo, perché l'alternativa sarebbe stata la guerra, con un carico di mali indicibili. Parlava della soluzione con «due Stati», l'israeliano e il palestinese. «Siamo come una coppia che divorzia. Meglio due appartamenti piccoli alla condivisione di uno grande, ma lacerato dalle tensioni. E la separazione deve essere netta, chiara, ben stipulata», ripeteva.

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