Non c’è mai stato così tanto traffico oltre il cancello giallo di Bruchim. Una seduta straordinaria del governo israeliano, ad interim in attesa di nuove elezioni a settembre, ha portato nel minuscolo e isolato insediamento sulle Alture del Golan - quindici residenti - il convoglio del premier Benyamin Netanyahu con la moglie Sara, i membri del gabinetto e l’ambasciatore Usa in Israele David Friedman. In una cerimonia definita «gioiosa» dall’ufficio stampa del governo, ieri pomeriggio Bruchim è diventato ufficialmente Ramat Trump (Alture di Trump).
Il «regalo di compleanno» - così è stato accolto il gesto da parte di Friedman a due giorni dal genetliaco del presidente americano - era stato annunciato lo scorso 23 aprile da Netanyahu, subito dopo il riconoscimento, con un tweet di Trump seguito dal proclama della Casa Bianca il 25 marzo, della sovranità israeliana sul Golan, territorio conquistato alla Siria durante la guerra del 1967.
La cerimonia
La cerimonia ha contemplato un coro, discorsi ufficiali, esecuzione di inni e lo svelamento di un enorme cartello con il nuovo nome del posto in ebraico e le bandiere di Israele e Stati Uniti. I residenti delle poche case spartane di Bruchim hanno manifestato tutte le sfumature che vanno dall’entusiasmo allo scetticismo perché non è da oggi che il governo cerca di popolare le Alture del Golan offrendo incentivi a immigrati, per lo più russi, in stato di necessità. Lilah Ben Mordechai ha trascorso un anno a Bruchim mentre studiava nella vicina Kiryat Shmona nell’ambito di uno di questi programmi ma ad agosto andrà via. «Per adesso hanno fatto un po’ di pulizia e questo è un bene. Servirebbero scuole, trasporti e ospedali ma sono tre cose che, finché ci vivono poche persone, non possono essere avviate. Penso che lo Stato debba investirci più soldi ma la gente sappia che vivere qui ha il suo perché. Per me è stata una bellissima esperienza. Certo, non so se potrei restarci più a lungo perché è decisamente troppo tranquillo».
Più inflessibile una coppia di anziani coniugi russi di San Pietroburgo che vive qui dal 1992: «Vogliamo che resti un piccolo posto silenzioso, come è adesso. Non ci serve che arrivi altra gente. Non ci serve, e non la vogliamo».
Di tutt’altro avviso Ariel Pinto, trasferito quindici anni fa nel Golan dal deserto del Negev, abitante, a un chilometro da Bruchim, dell’insediamento di Kela Alon. Pochi minuti di distanza ma un altro pianeta, fatto di villette e ottanta residenti benestanti. Si aggira per le case di Bruchim prima della cerimonia per raccogliere le firme di chi appoggia il progetto, per poi consegnarle al primo ministro come incoraggiamento ad andare avanti in questa direzione: «È un posto molto piccolo, non c’è nulla, nemmeno un mini-market. Abbiamo bisogno di altra gente. Se arriveranno più persone a vivere qui per la pubblicità del nome di Trump, avremo più servizi».
In effetti Haim Rokach, presidente del Consiglio regionale del Golan, ha detto a Israel Ha Yom di aver ricevuto centinaia di telefonate, anche da ebrei degli Stati Uniti e del Canada, che dicono di voler immigrare e vivere nella nuova cittadina. Mentre nasceva Ramat Trump, a New York, l’inviato speciale del presidente Usa per i negoziati internazionali, Jason Greenblatt, annunciava che la presentazione dell’atteso Piano di Pace sul Medio Oriente potrebbe slittare a fine novembre, dopo le elezioni in Israele di settembre.
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