Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/04/2019, a pag. 6, con il titolo "Storici improvvisati e libri abborracciati contro la Resistenza", l'analisi di Amedeo Osti Guerrazzi.
A destra: Alberto Nirenstein. Ecco il commento in esclusiva per IC di Fiamma Nirenstein: "Il 25 aprile festa della Liberazione ricordo mio padre Aron Alberto Nirenstein, qui nella sua divisa della Brigata Ebraica dell'esercito inglese. Sbarco' e combatte' da coraggioso sul suolo italiano e a Firenze incontro' mia madre, partigiana, Wanda Lattes. Sia benedetta la loro straordinaria memoria".
Il buon articolo dello storico Amedeo Osti Guerrazzi termina sostenendo che "non c'è altro da dire". C'è invece ancora qualcosa di importante da dire. Il 25 aprile non deve essere messo in discussione - chi lo fa è un nostalgico di una feroce dittatura liberticida responsabile dei peggiori crimini - mentre può e deve essere messa in discussione l'Anpi, che da sempre esclude chi partecipa per ricordare Brigata Ebraica, attaccati da fanatici odiatori di Israele, mentre accetta la partecipazione di sparuti e aggressivi gruppi pro-palestinesi (ma di fatto chiaramente antisionisti e antisemiti). All'epoca della Seconda guerra mondiale e della Resistenza la leadership araba palestinese era schierata con un battaglione all'interno della Wermacht, quindi non con i partigiani, ma con il nazismo: emblematica è la figura del Gran Muftì di Gerusalemme, amico personale di Adolf Hitler e collaborazionista. Ha ancora senso, oggi, l'esistenza dell'Anpi, che ha sempre meno a che fare con la Resistenza e che annovera tra i propri iscritti un numero esiguo di partigiani sopravvissuti? Da più parti se ne chiede lo scioglimento, un atto che renderebbe la data del 25 Aprile condivisa da tutti gli italiani, come avviene nei paesi citati nel commento di Osti Guerrazzi che segue.
Ecco l'articolo:
Amedeo Osti Guerrazzi
Puntuali come ogni anno arrivano le polemiche sulla festa nazionale del 25 aprile. Un sindaco che rifiuta di esporre la bandiera, un rappresentante delle istituzioni o del governo che manda un messaggio polemico, e subito si scatenano le esternazioni, i «post», i «tweet», eccetera.
Il caso italiano è abbastanza peculiare. In nessun paese occidentale la memoria è così divisa o addirittura frammentata. Nessuno in Francia, se non sparute minoranze, oserebbe mettere in discussione i valori della Rivoluzione del 1789, come nessuno in Germania ha da ridire sulla caduta del Muro di Berlino, per non parlare della sacralità del 4 luglio negli Stati Uniti. I valori della democrazia e della libertà sono universalmente riconosciuti, e fanno parte integrante dell’identità delle nazioni.
Invece in Italia si dibatte ancora oggi, e ancora oggi la «Repubblica nata dalla Resistenza» è oggetto di critiche. I «Valori» della Resistenza possono essere messi tra virgolette beffarde che vorrebbero sottolineare l’ipocrisia di un movimento partigiano (nel senso di un movimento di una parte politica), e di una repubblica falsamente democratica.
Che la memoria sia divisa è un dato di fatto, e non c’è nulla di male. Come ha sottolineato anni addietro Sergio Luzzatto, non è possibile che la memoria della famiglia di un deportato per motivi politici o razziali sia la stessa di quella della famiglia di un ex gerarca fascista. Tuttavia quello che stupisce è la discussione non tanto sui fatti storici, ma sui risultati oggettivi della Resistenza italiana.
Ci si può interrogare sulle storture, sugli sbagli, sugli errori della Resistenza, ma che si critichi ciò che la Resistenza ha oggettivamente creato è difficilmente comprensibile. Tuttavia è oggettivo che parti anche non troppo piccole della politica italiana si rifiutino di dare un giudizio positivo sulla Resistenza e sulla lotta partigiana, basandosi su «riletture» e «antistorie» della guerra civile abborracciate da storici improvvisati. I libri che raccontano «le verità negate» o le «storie mai narrate» del periodo 1943-1945 riempiono interi scaffali delle librerie. La «contro-narrazione« storica che intende distruggere la «storia ufficiale», o la «vulgata antifascista» ha un successo notevolissimo e sempre crescente.
Il metodo di questi scritti «revisionisti» è sempre lo stesso, e ricorda molto quello dei negazionisti dell’Olocausto: ci si attacca a un episodio particolare, a uno sbaglio, a un crimine commesso da un partigiano per attaccare in toto l’intero movimento. Altre volte invece si sottolinea la «minorità» del movimento partigiano e la sua scarsa incidenza sugli eventi bellici per dichiarare i resistenti come dei semplici approfittatori della guerra.
Se questi pubblicisti rimanessero confinati in un settore di nicchia, letti da pochi nostalgici, la cosa non sarebbe preoccupante, ma evidentemente ciò non è così. Il problema è che una parte consistente della società italiana rifiuta non solo la Resistenza, ma proprio ciò che la Resistenza ha ottenuto, cioè la libertà e la democrazia per il nostro paese.
Tutto questo è decisamente preoccupante. Evidentemente una fetta importante dell’opinione pubblica (e dell’elettorato), preferirebbe nettamente vivere in una dittatura piuttosto che in un paese democratico. Per questo motivo è così difficile discutere con chi attacca la Resistenza.
Da parte mia, vorrei soltanto ricordare una frase attribuita a Vittorio Foa durante una discussione con il fascista Giorgio Pisanò: «Se aveste vinto voi, io sarei ancora in galera. Abbiamo vinto noi, e tu sei senatore della Repubblica».
Non c’è altro da dire.
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