La Stampa - Paolo Mastrolilli: "Alleati spiazzati dalla Casa Bianca: 'Ora temiamo il ritiro da Kabul' "
Paolo Mastrolilli
Il capo del Pentagono Mattis lascerà la carica alla fine di febbraio. Ad annunciarlo è stato lo stesso presidente Trump, dopo l’ultimo scontro con il segretario alla Difesa che si opponeva al ritiro dalla Siria.
La parola che i più stretti alleati storici degli Stati Uniti usano per definire la reazione al ritiro è «flabbergasted», sbalorditi. Perché così crolla l’intera linea per il Medio Oriente concordata con Washington, senza la proposta di un piano B per combattere l’Isis, contenere l’Iran, e impedire alla Russia di prendersi il Paese. Il timore ora è che Trump faccia lo stesso in Afghanistan, aprendo la porta anche alla resurrezione dei talebani e di Al Qaeda.
Il presidente ieri ha difeso la sua decisione, scrivendo su Twitter che «gli Usa non vogliono essere il poliziotto del Medio Oriente, ottenendo nulla, ma spendendo vite preziose e trilioni di dollari». Anche Obama era convinto che la presenza militare americana non potesse cambiare la traiettoria politica della regione, e decidendo di non colpire Assad dopo l’uso delle armi chimiche nel 2013 aveva aperto la porta al Califfato e all’intervento di Mosca. Il problema è che Trump aveva criticato il predecessore promettendo di fare l’opposto, e quando oggi dice che «Russia, Iran, Siria e molti altri non sono contenti del nostro ritiro, perché ora dovranno combattere loro l’Isis», commette un doppio errore logico. Primo, se il Califfato deve ancora essere combattuto significa che non è sconfitto, e ciò contraddice la motivazione data per il ritiro. Secondo, se i terroristi sono ancora una minaccia ma il territorio è controllato ora da Mosca, Teheran e Damasco, non si capisce quale successo di lungo periodo abbia ottenuto lui rispetto al predecessore. Inoltre Israele aveva detto alla Casa Bianca che considera la presenza dell’Iran in Siria come una minaccia esistenziale, e infatti ieri il premier Netanyahu ha sentito al telefono Trump, chiarendo che continuerà a condurre i suoi raid. Gli Usa rispondono che terranno a bada gli ayatollah con altri mezzi, ad esempio le sanzioni, ma non è facile capire come potranno spiegare allo Stato ebraico la logica del ritiro, che lascia un vuoto militare dove presumibilmente si piazzeranno Hezbollah e la Guardia rivoluzionaria. L’Arabia potrebbe avere un piano B, coprendo Damasco di soldi per staccarla da Teheran, ma queste sono solo voci che finora non hanno trovato conferme concrete.
Gli alleati americani sospettano che dietro alla decisione di Trump ci sia un accordo fatto dalla Turchia con la Russia, che include la fornitura di armi, per la spartizione della regione con l’Iran. Erdogan quindi ha convinto il capo della Casa Bianca che l’Isis è sconfitto, e lui poteva dichiarare vittoria e ritirarsi, rispettando la promessa fatta in campagna elettorale. Purtroppo le cose non stanno così, e anche all’interno dell’amministrazione e del Partito repubblicano ci sono opinioni diverse, come quella del senatore Graham, che ha proposto una risoluzione per ribaltare la decisione considerata catastrofica. Il Pentagono non ritiene che l’Isis sia finito, e non voleva dare a Mosca il segnale di debolezza insito nel ritiro. Il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton si era spinto a garantire che gli Usa non avrebbero lasciato la Siria fino a quando l’Iran fosse stato presente, ed è stato clamorosamente smentito. Un suo collaboratore mercoledì sera ha tenuto un briefing con i giornalisti per sostenere che il vero obiettivo dell’Isis è ora espandersi in Libia e nel Sinai, e colpire l’Occidente con gli attentati fuori da Medio Oriente. Anche se questa analisi fosse corretta, non basterebbe comunque a convalidare la convenienza strategica dell’abbandono della Siria. Infatti il Pentagono è contrario, e in base ai colloqui già avvenuti tra i militari dei Paesi alleati, molti si aspettano che ora gli Stati Maggiori useranno la tempistica del ritiro per ostacolarlo e ritardarlo il più possibile. Ma il segretario Mattis, che già si era opposto all’invio dei soldati alla frontiera col Messico per fermare la carovana dei migranti, e ad altri provvedimenti, ha deciso di lasciare la carica, creando una nuova crisi nell’amministrazione dopo l’uscita del capo di gabinetto Kelly. Adesso la preoccupazione è che Trump faccia lo stesso in Afghanistan, come aveva prospettato in passato, consegnando il Paese ai talebani e al probabile ritorno di Al Qaeda. Gli europei poi temono anche una nuova ondata di rifugiati, se la Turchia attaccherà i curdi abbandonati dagli americani davanti ai suoi confini, e non manterrà gli impegni presi per bloccare i flussi verso il Vecchio Continente. Ieri intanto Staffan de Mistura ha tenuto il suo ultimo rapporto al Consiglio di Sicurezza come inviato dell’Onu in Siria. La mediazione è in fase di stallo, e la Russia ha usato la sessione per vantarsi del suo successo.
LA STAMPA - Giordano Stabile: "I curdi cercano aiuto da Assad per resistere ai raid turchi"
Giordano Stabile
I curdi sono di nuovo soli, con le «montagne come unici amici» e poche carte da giocare. La dirigenza del Pyd, l’ala politica del gruppo guerrigliero Ypg, protagonista della lotta contro l’Isis, fatica ad assorbire lo choc dell’annuncio di Trump, poche righe che per il popolo del Rojava, il Kurdistan siriano, possono significare la fine. I curdi pensavano che le «migliaia di morti e feriti» lasciati sul terreno nella lotta allo Stato islamico avrebbero garantito la protezione Usa per gli anni a venire. Non avevano mai chiuso però i canali di dialogo con il governo di Bashar al-Assad. Ora negoziati sono in corso, secondo fonti vicine a Damasco, per assicurare la «protezione dei posti di frontiera» da parte delle forze del regime. Assad chiede come immediata merce di scambio e garanzia, la cessione del campo petrolifero Al-Omar, nella provincia di Deir ez-Zour, il più grande della Siria e cassaforte dei curdi.
Da Kobane sottolineano che l’intesa è possibile, anche perché «noi non abbiamo mai puntato all’indipendenza, ma all’autonomia con il riconoscimento della nostra cultura e la possibilità di usare la nostra lingua accanto all’arabo nell’amministrazione e nelle scuole». Ma non si fidano davvero. Già nel 1998 sono stati sacrificati da Damasco, con l’espulsione del loro leader Abdullah Ocalan, dopo un accordo fra Assad padre e Ankara. Ora temono una nuova intesa fra Assad figlio e Erdogan, simile a quella raggiunta per Idlib. Cioè la cessione alla Turchia di una fascia di territorio di confine, comprese le principali città curde: Kobane, Qamishlo, Hassakah. In cambio il regime potrebbe rioccupare il resto del territori a Nord-Est, con i principali pozzi petroliferi. Per questo ieri una delegazione curda è arrivata a Parigi, per chiedere aiuto agli europei. Ma è difficile che Parigi e Londra possano sostituirsi a Washington e per i curdi è di nuovo la «sindrome dell’abbandono» da parte dell’Occidente, sperimentata varie volte.
IL FOGLIO - Daniele Raineri: "I disastri della fuga di Trump dalla Siria"
L'odio contro Trump in versione Ferrara esplode anche nel titolo, Trump non si ritira dalla Siria, ma 'fugge'. Patetico!
Anche nell'editoriale a pag.3 (che non riprendiamo) troneggia un "Trump scappa"
Daniele Raineri
New York. Ieri sui canali Telegram dello Stato islamico si commentava la decisione improvvisa del presidente americano, Donald Trump, di ritirare tutti i soldati americani dalla Siria e di interrompere anche le missioni aeree. La notizia è vista dai terroristi come una chance inaspettata di rovesciare l’andamento della guerra contro le milizie curde che negli ultimi tre anni hanno portato lo Stato islamico quasi all’estinzione: ora i curdi resteranno senza l’appoggio a terra degli americani (forze speciali, artiglieria e intelligence) e soprattutto senza i bombardamenti di precisione che possono prendere di mira e colpire il tetto di un singolo edificio e sono così preziosi durante i combattimenti. Lo Stato islamico in questi anni non è riuscito a mantenere la presa su tutto l’enorme territorio che era caduto sotto il suo controllo, ma è specializzato nel risorgere dalle sue ceneri. L’ha già fatto una volta dieci anni fa, in Iraq, quando le sue attività si erano ridotte al minimo, i suoi uomini erano arrestati a centinaia e i capi erano uccisi uno dopo l’altro. Ha aspettato che le condizioni fossero migliori ed è tornato. Ci sono centinaia di cellule clandestine dello Stato islamico in Siria pronte a uccidere, sabotare e piazzare bombe per terrorizzare la popolazione locale, indebolire le forze di sicurezza e tentare di tornare forti come prima – quando organizzavano attentati in Europa. Tanto più che questa volta il gruppo non risorge dalle sue ceneri, ma riparte da una posizione ancora solida. Mentre il presidente Trump dice “abbiamo vinto”, ecco i dati ufficiali dei bombardamenti americani contro lo Stato islamico in Siria: sono stati 208 soltanto nella settimana tra il 9 e il 15 dicembre, quindi pochi giorni fa. Quarantasette bombardamenti sabato 15, ventisei bombardamenti venerdì 14, trentadue bombardamenti giovedì 13 e così via: è vero che di questa coda di guerra contro lo Stato islamico nella Siria orientale si parla pochissimo in tv e molti americani saranno sorpresi dal sentire che i soldati si ritirano da un fronte che non ricordavano, ma è difficile dire che le operazioni fossero concluse. Si era ancora nel mezzo della battaglia. Lo dicono i curdi, che ieri hanno parlato in un comunicato ufficiale di “grave errore di Trump” e ora parlano di ritirarsi dalla prima linea e liberare i tremiladuecento prigionieri dello Stato islamico che gli tocca mantenere in attesa che i governi diano loro istruzioni. Tra i combattenti che potrebbero tornare in libertà ci sono almeno due “Beatles”, quelli che rapivano e decapitavano ostaggi, e di certo un paio di italiani. I curdi dicono che saranno costretti a ripiegare per usare tutte le risorse a loro disposizione contro la minaccia di un intervento militare della Turchia. Pochi giorni fa una cellula dello Stato islamico in Marocco ha ucciso due turiste scandinave proprio per vendicare “i nostri fratelli bombardati ad Hajin”. Hajin è la cittadina in Siria dove curdi e fanatici dello Stato islamico stanno combattendo, adesso non ci saranno più raid aerei. Che la campagna contro lo Stato islamico non fosse finita lo ammette lo stesso Trump nei tweet successivi a quello della vittoria, quando dice che ora dovranno essere Russia, Siria e Iran a combattere contro lo Stato islamico e per questo “non sono contenti”. In realtà non sembrano così insoddisfatti, visto che ieri Putin s’è congratulato con Trump per la decisione in attesa di farlo di persona all’incontro previsto fra un mese. Quelli pietrificati invece sono i generali del Pentagono e gli uomini del dipartimento di Stato e del consiglio nazionale di Sicurezza che avevano tentato di imporre al presidente una linea politico-militare che lui non sentiva sua e che infine ha cancellato con un tweet. I generali americani da anni giurano ai curdi che sarebbero rimasti al loro fianco, ma sono stati smentiti. Il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, a settembre diceva che le truppe americane avrebbero lasciato la Siria soltanto dopo l’Iran, ma è stato smentito. Lunedì l’inviato speciale nominato da Trump per la Siria, James Jeffrey, minacciava il presidente siriano Bashar el Assad e diceva che “se la sua strategia è aspettare che ce ne andiamo, meglio che sappia che andrà via prima lui”, ma è stato smentito. Il potere esecutivo è nelle mani del presidente e con una singola decisione ha ridotto a zero le posizioni annunciate dalla sua macchina militare e diplomatica. Il messaggio al mondo è chiaro: qualsiasi garanzia o rassicurazione riceviate da diplomatici di altissimo livello o da generali americani, non ascoltateli perché nemmeno loro sanno quello che succederà e le loro parole non valgono un mezzo tweet del presidente. Da mesi si parla di come alla Casa Bianca un’alleanza informale fra i pezzi grossi dello staff del presidente lavori per prevenire decisioni troppo dannose – fino al punto da rubargli i documenti dalla scrivania. Ebbene, l’alleanza è impotente. Trump ha preso la decisione di consegnare la Siria a Russia e Iran e gli alleati curdi alla Turchia durante una telefonata con il presidente turco Recep Tayyep Erdogan, con cui il presidente americano sembra molto cedevole. Vuole vendergli i sistemi antimissile Patriot e negozia sull’estradizione di Fetullah Gulen, nemico storico di Erdogan che credeva di essere al sicuro in America. Si dice che un giorno Trump abbia chiesto al generale Jim Mattis, il suo capo della Difesa, quale fosse il modo più veloce di lasciare l’Afghanistan, un altro teatro di operazioni detestato dal presidente. Mattis dette una risposta sempre valida: “Perdere la guerra”.
IL FOGLIO - Paola Peduzzi: "Il regalo all’Iran"
Paola Peduzzi
Milano. Dire grazie a Trump per la leadership iraniana sarebbe troppo disdicevole, dopo tutti i colpi presi poi sarebbe anche umiliante. Ma se potesse, se fosse ammissibile lanciare un messaggio che non sia d’odio contro il Grande Satana, ecco, oggi Teheran direbbe in coro: grazie Trump. Perché il ritiro americano dalla Siria è un regalo agli ayatollah che nella loro politica espansionistica ambiscono a un vassallaggio completo della terra siriana, mentre (ri)trasformano il sud del Libano in una piattaforma di lancio di missili contro Israele ed estendono la loro influenza sul governo iracheno. Per questo, al posto del grazie indicibile, circola un’imma - gine di vittoria in cui l’Iran è rappresentato da un enorme e fiero veliero che procede tronfio con la rivoluzione islamica in poppa, mentre l’America perde, si ritira, s’arrende (e Parigi brucia, il gilet giallo è ormai imprescindibile).
L’Iran non se l’aspettava, questa svolta: non se l’aspettava nessuno, come dimostrano le ricostruzioni che raccontano di sorpresa e rabbia nell’entourage della Casa Bianca e anche se Trump sostiene che non si tratta di una svolta, lui questa cosa la dice da sempre, certo Teheran non ci sperava proprio. Se c’è stato un punto fermo nella terremotata politica trumpiana è proprio l’Iran e il suo contenimento. Donald Trump è uscito in modo unilaterale dall’accordo sul nucleare iraniano, ha introdotto nuove sanzioni contro l’Iran e contro chi fa affari con l’Iran, cioè gli europei, ha rafforzato l’alleanza con Israele spostando l’ambasciata a Gerusalemme, ha difeso il principe saudita Mohammed bin Salman dalle accuse dell’uccisione del giornalista Jamal Kashoggi, contrariamente a quanto dicono la Cia, il Senato e l’evidenza. Ogni calcolo trumpiano è stato fatto finora con una premessa chiara: non consentiremo all’Iran di espandersi né di prenderci in giro per anni sul suo programma nucleare. E la strategia anti iraniana ha fatto anche da collante in un’Amministrazione che fatica a trovare un terreno comune su qualsiasi questione e vive di liti e sgambetti orchestrati in pubblico, come vuole il reality trumpiano. Poi il presidente ha annunciato il ritiro dalla Siria delle truppe americane con un tweet e tutto, in un attimo, si è rovesciato. Trump sostiene che l’Iran – con Russia e Siria – ha poco da festeggiare, perché ora toccherà alle sue forze combattere lo Stato islamico (che fino al tweet presidenziale di due giorni fa era sconfitto) e tenersi il territorio ripreso indietro grazie alla presenza americana. Trump non vuole fare il poliziotto del mondo e dice agli altri, amici e nemici insieme (far la differenza non è più così semplice): cavatevela, sintesi perfetta di un approccio realista e “America first” combinato assieme. Israele ha risposto gelido: prendiamo atto della decisione americana (il premier, Benjamin Netanyahu, aveva insistito moltissimo con Trump e con l’Amministrazione di evitare ogni ritiro), continueremo a difendere il nostro paese. Del resto se c’è una nazione che, in quella regione, se la deve cavare da sola, quella è Israele. Ma anche dalle analisi israeliane trapela sconcerto: in medio oriente ogni posto lasciato sguarnito non resta vuoto a lungo. E per gli iraniani che, secondo un report del dipartimento di stato americano di ottobre, hanno speso 16 miliardi di dollari dal 2012 per sostenere i conflitti in tutta la regione, compreso lo Yemen, questo vuoto è un ritorno sull’investimento irrinunciabile. Per questo le Guardie della Rivoluzione, che sembrano secondo alcune fonti già in movimento, puntano fameliche alla base di al Tanf, nell’est della Siria quasi al confine con l’Iraq, che i generali americani definiscono “speed bump”, un dosso per far rallentare l’avanzata non soltanto dello Stato islamico ma soprattutto delle forze iraniane: al Tanf è un intoppo alla costruzione dell’ambito corridoio che unirebbe Teheran a Baghdad, Damasco e Beirut. Non è un caso che da tempo i russi, alleati dell’Iran in difesa del regime siriano di Bashar el Assad, denunciano le attività degli americani ad al Tanf e nei “55 chilometri circostanti”: “C’è grande preoccupazione rispetto alle dubbie attività degli Stati Uniti e dei loro alleati in Siria – ha detto a metà dicembre il colonnello generale Mikhail Mizintsev – L’occupazione illegale dei 55 chilometri attorno alla base al Tanf continua a essere l’origine della destabilizzazione in quella parte di Siria”. Senza il “bump” di al Tanf, l’Iran può recuperare terreno, riconquistando la parte orientale della Siria – dove ci sono tutte le risorse petrolifere e gasifere del paese – che è controllata dai principali alleati americani: i curdi. Se accendete la tv su canali americani che parlano della questione siriana vi capiterà di sentire urla e pianti: sono i familiari dei soldati curdi, che sanno fin troppo bene che cosa significa essere abbandonati dall’America.
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