Riprendiamo oggi, 03/11/2017, due articoli sul 'Caso Regeni'. Il primo dal GIORNALE a pag.10. il secondo dalla REPUBBLICA a pag.1/3
I contenuti giungono alle medesime considerazioni, ma quello di Fausto Biloslavo anticipava già il 5 settembre scorso quello che la maggioranza dei media si rifiutava di considerare: la responsabilità di chi aveva mandato in Egitto Giulio Regeni, in questo caso una docente musulmana di Cambridge, militante dei Fratelli Musulmani, in una missione che anche un bambino poteva giudicare estremamente rischiosa. Come infatti è avvenuto al povero Regeni, uno dei tanti giovani innamorato delle 'primavere arabe', talmente condizionato nei confronti dell'islamismo da rimetterci la vita. Mentre la 'tutor' a Cambridge non interessava ai nostri cronisti.
eccola: Maha Abdel Rahman
Per questo abbiamo abbinato il pezzo di Repubblica (che già ieri aveva pubblicato un servizio) a dimostrazione di quanto l'auto-censura ha avvolto la morte di Giulio Regeni con uno slogan "la verità su Giulio Regeni" che coinvolgeva il solo Egitto, escludendo la prima responsabile della sua morte.
ll Giornale-Fausto Biloslavo: "La cricca intoccabile che nessuno vedeva"
Fausto Biloslavo
Sul«GIORNALE II 5 settembre scorso, Fausto Biloslavo Tutta la verità per Giulio Regeni» e non solo quella contro le indubbie responsabilità egiziane, sta lentamente affiorando. Repubblica ha scoperto l'acqua calda con un titolo in prima pagina sulle «bugie di Cambridge». La notizia è l'ennesima richiesta della procura di Roma, titolare delle indagini sul ricercatore friulano torturato a morte al Cairo, di interrogare la sua tutor, Maha Abdel Rahman, e acquisire i tabulati telefonici della docente di origine egiziana che ha mandato Regeni allo sbaraglio. Lo stesso ricercatore comunicando dall'Egitto via Skype con i familiari confermava i dubbi sulla tutor, che lo aveva affibbiato a una collega del Cairo altrettanto attivista contro il regime del presidente Al Sisi. Il Giornale e Panorama avevano acceso i riflettori sulla «cricca» dei docenti agit prop di Cambridge subito dopo il terribile omicidio del giovane friulano. Media a senso unico, politici, analisti, amici di Regeni ci bollavano come «depistatori» e nel migliore dei casi le rivelazioni, confermate oggi da Repubblica e trasformate in oro colato, venivano silenziate. Pure Amnesty international, che ha adottato la campagna per la verità su Regeni, seguiva il branco senza porsi domande. Per esempio come fosse possibile che Abdel Rahman, pochi mesi prima di affidare la ricerca a Giulio, avesse tenuto una conferenza proprio con Amnesty a Cambridge denunciando i pericoli in Egitto per studenti, docenti e società civile. Salvo poi dare il via libera, assieme al suo capo dipartimento, all'analisi del rischio preparato dallo stesso ricercatore friulano sulla missione al Cairo. Qualche apparato di sicurezza egiziano ha le mani sporche del sangue di Giulio, ma la cricca politicizzata di attivisti con i panni di docenti universitari che lo hanno spedito al Cairo devono dire «tutta» la verità. Noi e pochi altri lo avevamo scritto in tempi non sospetti. Della cricca universitaria che ha cavalcato il caso Regeni fa parte anche Anne Alexander. Attivista e docente di Cambridge ha indetto la petizione accademica internazionale contro Al Sisi con il cadavere di Giulio ancora caldo. Alexander, marxista convinta e filo Fratelli musulmani, mentre Regeni era al Cairo probabilmente con i suoi contatti, manifestava a Londra contro la visita del presidente egiziano bollandolo come «un assassino». Ora si scopre che neppure Regeni, a ragione, si fidava dei suoi tutor. E che altri studenti ricercatori di Cambridge inviati in Egitto dallo stesso gruppo erano finiti nel mirino del regime e avevano subito violenze. II nostro governo, che ha ritirato l'ambasciatore dal Cairo fino a pochi mesi fa, doveva usare lo stesso pugno di ferro con gli amici e alleati inglesi. La cricca universitaria di Cambridge, che ha messo nei guai Regeni, agiva contro l'Egitto alla luce del sole e sembra che gestisse da tempo «ricerche» pericolose usando studenti come carne da cannone. Una realtà che non poteva sfuggire ai servizi segreti di Sua Maestà britannica. Regeni si è accorto troppo tardi che qualcosa non quadrava. Per questo bisogna tirare fuori tutta la verità sia dai buchi neri egiziani che sul lato oscuro della cricca di Cambridge.
La Repubblica-Carlo Bonini,Giuliano Foschini: La prof.scrisse 'In Egitto nessun rischio per Regeni'
Carlo Bonini Giuliano Foschini
CAMBRIDGE- Al dipartimento di Development studies dicono che la supervisor di Giulio, la professoressa Maha Abdel Rahman, non sia in università. «Non oggi, almeno», rincula con un sorriso una giovane e gentile segretaria. Forse è vero, forse no. Perché a giudicare dalla stringata dichiarazione che dopo una mattinata di riunioni il portavoce dell’Università, Angel Gurria, consegna a Repubblica, il problema è che cosa far dire alla professoressa Rahman e soprattutto se farglielo dire. «La professoressa Abdel Rahman — spiega il portavoce — ha ripetutamente espresso la sua volontà di collaborare appieno con la magistratura italiana. Non abbiamo ancora ricevuto una richiesta formale per la sua testimonianza e siamo in attesa di riceverla il prima possibile, come del resto abbiamo ripetutamente sollecitato».
«NEL frattempo, sarebbe inopportuno e in violazione delle norme processuali che la dottoressa Abdel Rahman parlasse con i media prima della sua testimonianza». Sono parole che evidentemente non spostano di un centimetro, né in un senso né in un altro, la questione posta della Procura di Roma nella rogatoria inoltrata dalle autorità inglesi il 9 ottobre scorso (e incredibilmente ancora incastrata nella burocrazia britannica). Scrivono infatti il procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco: «La docente si è già rifiutata di comparire davanti alla polizia di Cambridge nel giugno del 2016 e, solo successivamente, ha fornito risposte del tutto informali e superficiali via mail. Risposte del tutto inutilizzabili secondo la legge italiana». Bisogna dunque intendersi sul termine «disponibilità alla collaborazione». Non fosse altro perché in venti mesi la professoressa ha cambiato idea almeno due volte. Era disposta a collaborare solo se interrogata “formalmente” nel febbraio del 2016. Aveva deciso di farlo solo “informalmente” nel giugno 2016 quando una rogatoria ufficiale era finalmente arrivata. Bisognerebbe anche riuscire a immaginare cosa abbia governato davvero in questi venti mesi le mosse dilatorie e reticenti della supervisor di Giulio: se il comprensibile timore per le conseguenze che i suoi familiari, tuttora in Egitto, potrebbero pagare con il regime di Al Sisi per la sua testimonianza. A maggior ragione da quando, dopo la morte di Giulio, lo stesso regime la accredita, per screditarla, come «appartenente ai Fratelli Musulmani », e dunque come militante «politicamente sovversiva», prima che accademica. O, al contrario, la paura di dover spiegare ciò che sin qui non ha una risposta. A cominciare da una firma, la sua, che — come Repubblica ha potuto accertare — figura in calce al “risk assestment form” (il modulo di certificazione del rischio) che venne redatto nel 2015 quando fu approvata la ricerca partecipata di Giulio al Cairo. In quel documento — copia del quale è stata trasmessa alla Procura di Roma prima dell’estate scorsa — la professoressa Abdel Rahman escludeva che vi fossero rischi nel tipo di ricerca e nel Paese in cui doveva essere svolta. Così come risultava essere ben più generico l’oggetto della ricerca iniziale di dottorato di Giulio. Circostanza, questa, cui i magistrati della Procura di Roma dedicano un passaggio chiave della loro rogatoria trasmessa alle autorità inglesi. «Risulta oscuro — si legge — chi abbia definito l’oggetto specifico e le modalità operative dell’attività di ricerca partecipata. Si tratta di circostanze che appaiono di grande rilevanza. Infatti, un conto è effettuare uno studio sul mondo del lavoro egiziano e sul ruolo dei sindacati riconosciuti, un altro è affrontare il tema dei sindacati indipendenti, cioè di quelli non riconosciuto dallo Stato, che hanno avuto, secondo molti studiosi, un ruolo decisivo come motore delle rivolte sociali durante la rivoluzione del 2011». La verità è che l’iniziativa della Procura di Roma sembra aver messo a nudo il culo di sacco in cui sono finiti l’università di Cambridge e la professoressa Abdel Rahman. Con il vertice accademico dell’università convinto — come è stato ribadito dal pro rettore per le Relazioni internazionali di Cambridge in un incontro con il nostro ambasciatore a Londra, Pasquale Terracciano il 6 ottobre — che la collaborazione con la magistratura italiana sia dovuta anche per evitare un catastrofico danno di immagine. Ma con una struttura interna all’ateneo che impedisce al suo vertice di imporre — al di là di una generica moral suasion — scelte ai singoli professori dei singoli college federati nell’università. Un fatto è certo: qui nessuno sembra aver voglia di parlare davvero. Non la Abdel Rahman (se non alle sue condizioni). Non la comunità accademica internazionale da cui continua a non levarsi una voce collettiva che aiuti a vincere i silenzi, le reticenze, le omissioni che abitano il Dipartimento di Devolopment studies e che potrebbero aiutare a definire in modo compiuto le premesse e le responsabilità di un sequestro, di una tortura e di un omicidio che sono e restano, evidentemente, in capo e solo in capo agli apparati del regime di Al Sisi.
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