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Il Foglio Rassegna Stampa
29.10.2016 GB: Blair fonda un nuovo partito?
Analisi di Paola Peduzzi

Testata: Il Foglio
Data: 29 ottobre 2016
Pagina: 1
Autore: Paola Peduzzi
Titolo: «Il movimento di Blair»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 29/10/2016, a pag.1/4, con il titolo "Il movimento di Blair", l'analisi di Paola Peduzzi.

La nuova iniziativa politica di Tony Blair, ci interessa da vicino, almeno da quando il Partito Laburista è sotto la tutela antisemita e anti-Israele di Jeremy Corbyn. Un partito concorrente del Labour, che gli porti via consensi e voti, è ciò che vuole per la sinistra inglese.

Ecco l'articolo:

Milano. Ora “i ribelli siamo noi”, dice l’ex premier britannico Tony Blair, “dobbiamo mobilitarci e organizzarci”, dobbiamo “fornire risposte sull’immigrazione, sui servizi pubblici, la globalizzazione, i salari stagnanti” ma “non dobbiamo cedere alla rabbia” perché altrimenti non avremo successo. Con questo appello al popolo britannico, ed europeo, scritto in un articolo sulla rivista europeista The New European, Blair rilancia la mobilitazione del cosiddetto 48 per cento – contrario alla Brexit – che oltre a rappresentare l’elettorato più europeista rappresenta anche quel centro moderato, riformatore, liberale che in questo momento non ha un partito, nel Regno Unito almeno, in cui potersi riconoscere. Blair torna in politica, farà un partito? Lui dice che non vuole tornare, ma la sua proposta, di fatto, rivela il contrario. Parla della Brexit, Blair, facendo imbestialire il restante 52 per cento dell’elettorato inglese che l’uscita dall’Europa l’ha voluta e votata e che non vuole essere ignorato. Theresa May, premier conservatore alle prese con la definizione di un “modello inglese” di rapporto tra Londra e Bruxelles, ha risposto subito: “Tony Blair ha il diritto di esporre le sue idee – ha detto un portavoce di Downing Street – ma il popolo britannico ha parlato, e noi lo stiamo ascoltando, e usciremo dall’Unione europea”. Per Blair il Regno Unito deve “mantenere aperte tutte le opzioni”, perché, come ha detto intervistato ieri mattina dalla Bbc, “la cosa bizzarra riguardo a questo referendum è che abbiamo preso una decisione ma ancora non ne conosciamo i termini precisi”, e questo implica che le persone possono “cambiare la loro opinione”, che per lui significa: troviamo il coraggio di farlo. Tony Blair sottintende la possibilità di un secondo referendum sull’esito del negoziato con Bruxelles, ma questa ipotesi è di quelle che non sono assolutamente aperte per il governo conservatore: scordatevi un altro voto, dicono May e i suoi ministri. Non è necessariamente detto che il Regno Unito debba rimanere dentro all’Ue, sostiene l’ex premier laburista, ma il modello che si troverà è fondamentale ed è per questo che nel frattempo anche gli inglesi potranno cambiare idea. Blair cita l’argomentazione pro Brexit liberale, quella che era portata avanti da Boris Johnson e da Michale Gove per intenderci, che cozza grandemente sia con quella dell’Ukip ma anche con quella prevalente nel governo May che per controllare frontiere e immigrazione è disposto più o meno a tutto. Quell’argomentazione prevede che il paese “dovrebbe liberarsi dai lacci imposti dall’Europa e dal suo modello intrinsecamente socialdemocratico e cerare un nuovo tipo di economia. Che sarà definita in un senso che è contrario da quello del modello europeo: libero mercato, libero commercio, poca regolamentazione, tasse basse, bassa protezione sociale – una specie di replica di città-stato come Hong Kong o Singapore. Non è una visione impossibile. Potremmo stare bene in una società del genere. Ma diciamocelo: non è per questo modello che molti inglesi hanno votato”. May non punta a questo, nemmeno quando parla di capitalismo inclusivo, con il rischio che il Regno Unito diventi più povero e meno competitivo. L’inevitabilità, ecco che cosa combatte Blair. Racconta di un parlamentare laburista che era per il “remain” ma quando ha scoperto che nella sua circoscrizione tutti hanno votato per il “leave” ha iniziato a interrogarsi, e ancora non sa cosa fare: teme di perdere tutti i consensi. Ma accettare passivamente il negoziato con Bruxelles non è una strategia, è una resa: dobbiamo avere le idee chiare, ma soprattutto dobbiamo “lead”, guidare, governare, ribellarci e porre alternative, dice Blair. Sembra di sentirlo quando, ancora premier, arringava Parlamento e Commissione europea sulla necessità di una riforma dell’Europa: invitava churchillianamente il continente ad assomigliare di più al liberale Regno Unito. Così quando oggi dice che la Brexit non ha mai significato soltanto Brexit, è chiaro che nemmeno questo suo appello è confinato ai dettagli del negoziato: è una proposta politica. Che si colloca in un punto preciso, che vuole superare un ritorno agli anni Sessanta e la dicotomia tra un Partito conservatore “hard Brexit” e un Labour “hard left”. Il punto preciso è il centro.

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lettere@ilfoglio.it

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