Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 06/10/2016, a pag. 1-4, con il titolo "Le proteste dei curdi", l'analisi di Daniele Raineri; con il titolo "Erdogan senza freni", l'analisi di Daniel Mosseri.
Continua senza sosta la repressione di tutte le voci non allineate nella Turchia di Erdogan. Nel frattempo, la Turchia appoggiata dalla Russia prosegue la guerra contro i curdi siriani, l'unica forza realmente moderata tra quelle che si combattono in Siria. L'Occidente? Non pervenuto.
Ecco gli articoli:
Daniele Raineri: "Le proteste dei curdi "
Daniele Raineri
Una manifestazione di civili curdi
Roma. Al giorno numero quarantadue, l’operazione militare della Turchia nel nord della Siria è arrivata alle porte di Dabiq, un villaggio insignificante nella campagna piatta a nord di Aleppo e a dieci chilometri dal confine turco che però è un luogo sacro per lo Stato islamico. Per inquadrare la situazione è meglio fare un passo indietro: meno di un anno fa la Turchia aveva appena abbattuto un bombardiere russo dopo una violazione dello spazio aereo (il 24 novembre) ed era accusata dalla grancassa dei media di Mosca di essere alleata con lo Stato islamico. Erdogan era dipinto allora come “il padrino dell’Isis”. Oggi Russia e Turchia hanno stretto un accordo politico e militare dopo un incontro discreto tra generali – il capo di stato maggiore russo, Valery Gerasimov, era in Turchia il 15 settembre – e in attesa di una visita ad Ankara del presidente russo Vladimir Putin a Recep Tayyip Erdogan (ma non era il padrino dell’Isis?).
Che questa intesa ci sia si vede dalla mancanza di critiche reciproche in questi ultimi due mesi, che per tutti gli altri attori in campo sono stati come una rissa da bar. La Russia non ha battuto ciglio all’invasione di terra dei carri armati turchi e dei gruppi ribelli sul suolo siriano il 24 agosto, anzi, i media di stato, termometro fedele della linea politica, hanno celebrato l’avanzata dei ribelli contro “i terroristi” curdi (proprio così: terroristi). I turchi non spendono mezza parola sulla campagna aerea senza precedenti che russi e governo di Damasco hanno lanciato contro Aleppo est, che pure è in mano a gruppi appoggiati dai turchi. Ankara non commenta la distruzione di un convoglio di aiuti umanitari che – come hanno confermato le foto satellitari – è stato distrutto da un bombardamento aereo.
Ancora più incredibile è la composizione mista dell’operazione turca, che è chiamata “Scudo dell’Eufrate”, e che in condizioni normali scatenerebbe il fuoco degli organi di propaganda. Ne fanno parte molti gruppi dell’opposizione non islamista, come per esempio le brigate Sultan bin Murad – che in pratica sono una forza turca composta da volontari siriani – ma anche gruppi islamisti come Ahrar al Sham, che in arabo vuol dire “Gli uomini liberi del Levante” e secondo alcuni appartiene alla stessa categoria di al Qaida (è una generalizzazione scorretta, ma ci vorrebbe un saggio per spiegare le differenze). Assieme a queste fazioni, che sono state portate con alcuni bus dentro la Turchia e poi inserite di nuovo in Siria assieme ai carri armati dell’esercito regolare, ci sono anche almeno mille uomini delle Forze speciali turche e una quarantina di soldati delle Forze speciali americane. Questo corpo di spedizione eterogeneo nelle prossime ore attaccherà Dabiq, dove, secondo la visione apocalittica dello Stato islamico, gli aderenti del gruppo estremista combatteranno la battaglia della Fine dei tempi contro le forze del male guidate dal Dajjal, il falso profeta, l’Anticristo. Se l’Apocalisse non dovesse verificarsi, allora è probabile che l’operazione si allungherà verso la città di al Bab, “la porta” e potrebbe prima tagliare in due e poi ridurre a zero il territorio controllato dallo Stato islamico nel governatorato di Aleppo.
Lo stesso Erdogan lo ha annunciato alle Nazioni Unite dicendo che la “zona di sicurezza” creata dalla Turchia è ora di circa 900 chilometri quadrati ma potrebbe espandersi a cinquemila, come se le Forze armate turche non fossero nel mezzo di un travagliatissimo periodo di purghe post golpe fallito. A soffrire le conseguenze di questo allargamento sono i curdi, che per ora vedono sfumare il loro disegno di unire i cantoni nel nord della Siria e che denunciano bombardamenti aerei e di artiglieria turchi contro i loro villaggi (“è pulizia etnica”, protestano). Tutto questo, vale la pena ripeterlo, avviene senza che la Russia che ha il controllo dei cieli della Siria e che dispone a terra di un sistema antiaereo sofisticato come l’S-300 (e quindi potrebbe prendersi una rivincita facile per vendicare l’abbattimento di novembre 2015) pronunci una sola parola di disapprovazione. Gli stessi gruppi ribelli sono il bersaglio dei raid dei jet russi a sud e a ovest di Aleppo sul fronte contro gli assadisti, ma combattono indisturbati contro lo Stato islamico a nord-est della città.
Daniel Mosseri: "Erdogan senza freni"
Daniel Mosseri
Recep Tayyip Erdogan
Berlino. In Turchia lo stato d’emergenza decretato all’indomani del fallito golpe del 15 luglio scorso è stato prolungato per altri tre mesi. Mentre continua ad arrestare decine di presunti putschisti, il governo di Binali Yildirim, fedelissimo del presidente Recep Tayyip Erdogan, ha spento altri 23 canali radiotelevisivi perché sovversivi o separatisti. Fra le tivvù sediziose oscurate “per proteggere la democrazia, lo stato di diritto e le libertà dei nostri concittadini” figurano anche Govend Tv e Zarok Tv. Il primo canale trasmetteva solo video musicali, il secondo solo cartoni animati. Entrambi lo facevano in curdo, segnale evidente di come la repressione contro i cospiratori gulenisti sia ormai solo un pretesto per avviare una più generalizzata stretta autoritaria. Oggi il regime schiaccia chiunque ostacoli il potere di Erdogan e del suo partito per la Giustizia e lo sviluppo (Akp). “Noi siamo rimasti la sola forza di opposizione nel paese”, dice al Foglio il rappresentante in Europa del partito pro curdo Hdp, Eyüp Doru.
“Già prima del golpe il Chp aveva votato con l’Akp per privare i deputati curdi dell’immunità parlamentare. Dopo il golpe anche i nazionalisti (Mhp) si sono allineati col potere”. Un’alleanza non dichiarata dagli “effetti nefasti per normalizzare l’apparato pubblico e puntare a un regime islamico di stampo sunnita che non corrisponde alla diversità etnica e culturale della Turchia”. Se ieri il premier Erdogan aveva aperto all’autonomia culturale dei curdi, oggi il presidente Erdogan punta a impedire che anche in Siria si crei una regione autonoma curda come già successo nel confinante Iraq. Fin dove arriverà Ankara in questa cavalcata avviata dopo il 15 luglio? Difficile dirlo. Più facile prevedere che non sarà l’Europa ad arrestarla.
Nei giorni scorsi il leader dell’Hdp, Selahattin Demirtas, ha rappresentato i timori dei curdi ai dirigenti dell’Ue e al ministro degli Esteri tedesco Steinmeier, fra i più solleciti assieme alla cancelliera Angela Merkel a prendere le distanze da una risoluzione del Bundestag che definiva un genocidio i massacri di armeni compiuti dai turchi un secolo fa. La risoluzione aveva scatenato l’ira del sultano. Nelle scorse settimane il portavoce di Merkel, Steffen Seibert, ha dichiarato che la risoluzione del Bundestag “non è vincolante” per il governo. Così la cancelliera ha ottenuto il via libera per i rappresentanti del suo paese di visitare la base Nato di Incirilik in Turchia. “Più che di repressione a me sembra corretto parlare ormai di ristrutturazione dello stato”, dice sempre al Foglio Jean Marcou, turcologo e docente di Relazioni internazionali all’Istituto di Scienze politiche di Grenoble. “Non si tratta solo di purghe nell’apparato statale e parastatale: il fenomeno va dalle imprese private alle scuole di calcio, senza dimenticare lo stesso Akp”. Marcou ricorda come nel giro di pochi mesi Erdogan si sia sbarazzato di tutta la vecchia guardia del partito, dall’ex premier Davutoglu, all’ex ministro delle Finanze Babacan, all’ex capo dello stato Gül, “una generazione di politici cresciuti dentro a un sistema parlamentare”.
Al loro posto è subentrata una nuova squadra di Giovani Turchi al contrario, pronti a sostenere il progetto neo ottomano e presidenzialista del sultano. L’odierna fase politica è legittimata dalla reazione alla confraternita di Gülen “che ha sì infiltrato i gangli dello stato ma della quale l’Akp si è servita a lungo in passato”. Anche Marcou trova “ambiguo e malsano” l’unanimismo di nazionalisti e kemalisti con l’Akp, soprattutto con i secondi che criticano a parole la portata delle purghe “ma che non osano rompere con il potere”. D’altronde arginare il gulenismo, definito una minaccia terrorista, è un obiettivo condiviso, non limitato ai simpatizzanti dell’Akp. Farsi amici pericolosi per poi scaricarli e distruggerli sembra dunque una strategia collaudata di Erdogan, “che ha fatto lo stesso con l’Isis” in funzione anti Assad “ignorando a lungo le cellule dormienti dello Stato islamico, salvo impegnarsi un anno fa a combatterlo”. Sul fronte interno le purghe antiguleniste permettono inoltre di individuare nuovi nemici, da cui il giro di vite contro tanti curdi ma anche contro i giornalisti. Etichettare come terroristi indifferentemente i gulenisti, i curdi o l’Isis funziona, conclude Marcou, perché “legittima il mantenimento di uno stato d’emergenza permanente”.
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