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Corriere della Sera Rassegna Stampa
05.10.2016 Shimon Peres, ricordo di un leader
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: Corriere della Sera
Data: 05 ottobre 2016
Pagina: 28
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Shimon Peres, il più saggio dei nostri ultimi sognatori»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/10/2016, a pag. 28, con il titolo "Shimon Peres, il più saggio dei nostri ultimi sognatori", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

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Shimon Peres

«L’ uomo è un mendicante quando pensa e un principe quando sogna». Non so se Shimon Peres coltivasse la poesia di Hölderlin. E l’accostamento può apparire incongruo fra il poeta svevo posseduto dagli dei greci, e l’eroe della Haganah, nato nelle foreste della Polonia e ossessionato, fino alla fine, dallo spettro della distruzione degli ebrei. Eppure, è questa la frase che ho in mente, la mattina del 30 settembre, mentre i suoi amici, giunti dal mondo intero, si accalcano attorno alla piccola tomba dove sarà sepolto l’ultimo pioniere di Israele. È probabilmente la parola «principe» che mi lega a quel verso. È il profumo di funerali principeschi che aleggia nell’area riservata ai più grandi dirigenti del Paese nel cimitero sul Monte Herzl. Ed è lo spettacolo di tutte le teste coronate e di tutti i capi di Stato, è l’immagine di tutti gli Obama, Hollande, re di Spagna e d’Inghilterra che vedo lì, in raccoglimento attorno alla sua salma e che, già quando era in vita, che avesse o meno il potere, da tempo avevano preso l’abitudine di trattarlo come il più saggio e il più nobile fra loro: aveva una grazia misteriosa che portava a rivolgersi a lui, chiamandolo ormai solo «Shimon», con la deferenza del discepolo che interroga il suo rabbino.

Ma se quel mattino ho in mente quella frase è anche per ciò che esprime sul «sogno». È a causa dell’idea — credo fosse quella di Shimon — di un sogno che per gli esseri umani sarebbe la più alta e la più feconda delle facoltà. Certo, Shimon era profondamente ebreo, conoscitore della Bibbia, del Talmud e anche dello Zohar: e credeva quindi, a tale titolo, che al vertice della spirale spiccassero, secondo il temperamento di ciascuno, la saggezza o la profezia. Beninteso, Shimon era un politico; meglio, un capo militare; meglio ancora, uno stratega, cioè un dirigente che, contrariamente a Yithzak Rabin per esempio, non colpiva, ma calcolava, aggiustava il tiro; soprattutto, aveva avuto la genialità di plasmare l’esercito di Israele prima che altri lo lanciassero nelle battaglie; era Gedeone più che Joab; Giosuè più che Abner; faceva parte di quei generali illuminati di cui la Bibbia dice che praticano l’arte dei segni prima di quella della potenza. Ed era inevitabile che questo Shimon avesse la tendenza a porre al di sopra di ogni cosa la determinazione, l’astuzia e la scienza degli stratagemmi.

Ma non basta. Una parte di lui pensava che nell’edificio mentale di un uomo del suo genere, nelle sue sale piene di arte militare non meno che di tesori midrashichi, il posto d’onore spettava tuttavia a quella facoltà che egli chiamava sogno. Lo ricordo quando nel 2015, a Kiev, in occasione della «Yes Conference», ritrovava, come ogni anno, alcuni dei suoi colleghi-discepoli che oggi vengono, con la kippah sul capo, a rendergli un omaggio commosso. Victor Pinchuk, l’organizzatore, gli aveva chiesto dal palco da cosa derivasse la sua inalterabile giovinezza. Shimon aveva riso. Aveva riso con quella bella risata biblica presa in prestito dal vecchio Abramo quando gli annunciano il bambino che nascerà e le avventure illimitate che ne deriveranno. Era scoppiato in quel grande riso, immerso nello hidouch dell’incessante invenzione talmudica, come il corpo quasi immortale di Achille fu immerso, si dice, nelle acque dello Stige; in quello che è anche il riso cui si abbandona Dio, tre ore al giorno, con il Leviatano.

Shimon aveva risposto: «È semplicissimo: quel che contraddistingue la vecchiaia è la contemplazione dei sogni realizzati; quello che invece misura la giovinezza è il numero di sogni che devono ancora essere esauditi». Risposta straordinaria, a pensarci. Sbalorditiva maniera di indicizzare la riuscita di una vita sulle sue promesse più che sui suoi successi.

Ma la cosa più stupefacente era quando diceva ai grandi del mondo giunti ad ascoltarlo che l’uomo, se non sogna, è un mendicante, un irrimediabile indigente, bisognoso dell’anima e dello spirito; e che nessuna intelligenza è valida se non è spronata dal sogno. Sogno di pace con i palestinesi. Sogno di un Israele esemplare, non più nazione a parte fra le nazioni, ma che le illuminerebbe con la sua eccezionalità. Sogno di un Israele piccolo per il territorio, ma che sarebbe grande attraverso i valori dello spirito. Sogno – fantasia? - di deserti vivificati dai diluvi di computer che egli aveva immaginato, trent’anni fa, in uno strano libro, scritto con il suo amico Jean-Jacques Servan-Schreiber, e che io avevo pubblicato.

Oppure sogno di un matrimonio fra il sapere biblico di cui è stato uno degli ultimi dirigenti di Israele a conservare l’ispirazione, e l’intelligenza artificiale, elettronica, ipertecnica, alla quale i suoi ultimi amici, i giovani geek del «Centro Peres per la Pace» di Jaffa, avevano finito per iniziarlo. Sono questi sogni ad avergli consentito di restare un giovane sionista di 93 anni. A farlo ubbidire, fino alla fine, al precetto di Nahman di Breslav: «È proibito essere vecchi». La morte di Shimon Peres non è quella di un «grande uomo». Infatti, molti grandi uomini muoiono tutti i giorni senza che nulla ne consegua se non, diceva Rashi, «La grande ruota del lutto che gira nel mondo». È la morte di uno dei nostri ultimi sognatori. Di un uomo di Stato il quale, ricordando come il proprio Paese fosse nato da un sogno, poteva dargli lo splendore e la grazia del sogno. È quella di un principe sognatore che sapeva come, nella tempesta, il sogno non sia la parure o il festone della politica, ma il suo tessuto.

( Traduzione di Daniela Maggioni )

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