Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 16/09/2016, a pag. 39, con il titolo "Così a Istanbul ridiamo per contrastare l'oppressione", il commento di Burhan Sonmez.
La censura e l'oppressione voluta dal regime di Erdogan contro giornalisti e scrittori trova degli individui che ancora resitono all'islamismo in Turchia. Tra questi lo scrittore Burhan Sonmez.
Ecco l'articolo:
Burhan Sonmez
Quando lo scorso anno ho pubblicato in Turchia il mio ultimo romanzo, “Istanbul Istanbul”, le opinioni dei lettori sull’epoca in cui si svolge la storia sono state molto differenti. È la vicenda di quattro uomini, detenuti in una cella tre piani sottoterra. Tra una sessione di torture e l’altra passano il tempo a raccontarsi storie della Istanbul che si trova tre piani sopra la loro testa. Le due Istanbul, una sotto terra e l’altra sopra, sono separate e tuttavia unite. Leggendo le recensioni sui giornali e ascoltando le domande che mi venivano fatte durante le presentazioni, mi sono accorto che ogni generazio ne di lettori sembrava collocare la storia di “Istanbul Istanbul” nel periodopiù importante della propria vita. Un uomo della generazione del ‘68 ha detto che la storia rifletteva ciò che la sua generazione aveva sofferto in quegli anni.
La copertina del libro, ed.Nottetempo
Una donna che era all’università nel periodo della giunta militare del 1980 ha rivisto la sua vita. Ero felice perché pensavo di essere riuscito a combinare le sensazioni e le esperienze di diverse generazioni in un unico romanzo, ma quando ho capito che era anche il segno di qualcos’altro, mi sono rattristato. Perché rivela il fatto che molte generazioni di persone in Turchia hanno sofferto lo stesso tormento. Un nonno, sua figlia e il figlio di lei, tre generazioni di una famiglia potrebbero sedersi e parlare di dolori simili. Nelle loro storie cambierebbero solo i personaggi e il momento storico. Ma il luogo (la Turchia) e l’artefice (lo Stato) sarebbero gli stessi. Ecco perché, ora che stiamo di nuovo affrontando episodi di oppressione, di tortura e di accuse contro cosiddetti “nemici dello Stato”, non siamo sorpresi. Nella notte del 15 luglio, durante il tentativo di colpo di stato, non era difficile immaginare che il nostro paese avrebbe affrontato nuovamente tempi duri. Non importava chi sarebbe risultato vincitore, perché entrambe le parti condividono la stessa mentalità. Entrambe sono pro-Islam e credono nel dominio sulla società attraverso la forza. Se il tentativo di colpo di stato di Gulen avesse avuto successo, sarebbe stato decretato lo stato di emergenza con l’arresto di giornalisti, lunghi periodi di carcerazione preventiva e il licenziamento di migliaia di persone di diverse appartenenze politiche.
Ora che il governo di Erdogan risulta vincitore, si presentano esattamente le stesse pratiche: è in vigore lo stato di emergenza, sono stati imprigionati più di cento giornalisti, migliaia di persone sono state arrestate, un centinaio di migliaia di persone sono state licenziate, compresi insegnanti, accademici e arbitri di calcio. Il governo ha esteso il periodo di carcerazione preventiva da due a trenta giorni e ha sospeso la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Le persone sono in balia di un misto di sentimenti difficili da tenere insieme, tra i quali la malinconia non trova più spazio. Ci è sempre piaciuto usare la parola turca “Huzun” per esprimere quel tipo di malinconia che ha rappresentato una sorta di sentimento nazionale della nostra società per un paio di secoli. Una malinconia sociale alimentata dalla caduta di un impero e dalla fine dell’età d’oro dei secoli XIX e XX.
Huzun rappresenta la combinazione di lamento ed elogio per un passato glorioso. Ma ora siamo in uno stato d’animo diverso che è un misto di disperazione, inquietudine e rabbia. Il nostro grande romanziere Ahmet Hamdi Tanpinar ha detto, circa sessant’anni fa, che «la Turchia non permette ai suoi figli di occuparsi di niente, ma li tiene occupati in continuazione su di sé». La stessa cosa succede nel XXI secolo. Ora siamo alla ricerca di nuove parole per i nostri sentimenti che mutano in continuazione, ma il problema è che qui tutte le parole sono influenzate dalla politica. Ma non si deve pensare che siamo infelici. Noi, nonostante tutto, siamo tristi e contenti come le persone di tutti i paesi del mondo. Abbiamo un nostro modo di essere felici. Quando, in Istanbul Istanbul, scrivo di personaggi che, per passare il tempo, raccontano storielle divertenti in orribili centri di detenzione, nessuno lo trova poco realistico qui in Turchia. Fa parte della nostra vita quotidiana. È quello che chiamiamo la “risata gialla”.
Quando qualcuno muore, le persone si riuniscono nella casa della famiglia del defunto dopo il funerale, dove si condividono i sentimenti tristi e si scambiano le condoglianze. Alla fine della giornata, tutti se ne vanno e i membri della famiglia rimangono da soli in casa. Tv e radio vengono tenuti spenti. Si parla della persona amata appena sepolta. Mentre si raccontano gli episodi vissuti insieme al defunto, la conversazione piano piano si sposta e lentamente cominciano a emergere le storie divertenti su di lui o lei. Si raccontano i ricordi buffi e si ride tutti assieme. Le risate si sentono anche fuori casa. In alcune regioni della Turchia, viene chiamata “la risata gialla”.
Poche settimane fa, il 1° settembre, durante il funerale di Vedat Türkali, un vecchio scrittore turco di novantasette anni, c’era una grande folla alla moschea Tesvikiye di Istanbul. Non è stato un normale funerale di un uomo di lettere. I giovani scandivano slogan a favore della pace e del socialismo, ma quelli un po’ più anziani parlavano tra loro con voce triste. Erano addolorati perché Vedat Türkali aveva trascorso tutta la sua vita agendo per il bene della gente comune e aveva scontato per questo diversi anni di carcere. “I suoi sogni non si sono avverati”, ha detto un collega scrittore, aggiungendo: “Spero che saremo in grado di vedere quei sogni diventare realtà una volta arrivati alla sua età.”
Poi un paio di altri scrittori si sono uniti alla conversazione. Uno di loro ha raccontato una storia divertente su Vedat Türkali. Una volta Vedat stava camminando con un amico quando un uomo, a quanto pare un ammiratore della sua opera, si era avvicinato dicendo: «Signor Turkali, la seguo da quando ero giovane». Türkali con volto serio gli aveva chiesto: «Perché mi segui? Sei per caso un membro della polizia segreta?» Dopo aver ascoltato questa storia, abbiamo cominciato a ridere. Ma siccome la gente intorno ci lanciava sguardi di rimprovero, abbiamo abbassato il tono della nostra “risata gialla”. Siamo in vena di risate gialle da un bel po’, in Turchia. Accadono cose tristi in continuazione, ma continuiamo a ricordare gli aspetti divertenti di quelle cose. Sarà il nostro modo di sopravvivere in un’epoca di costante caos? O è il sintomo della speranza che le cose buone vengano a bussare alla nostra porta, la mattina di un prossimo futuro?
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