Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 07/09/2016, a pag. 1-3, con il titolo "Erdogan castigatutti", l'analisi di Daniel Mosseri; con il titolo "Lo stato dei migranti", l'analisi di David Carretta.
Due articoli che informano sulla stretta sulla stampa turca voluta da Erdogan, sugli arresti sistematici dei giornalisti non allineati al regime, sull'accordo Ue-Turchia sui profughi e l'inaffidabilità di Erdogan, un despota che non esita a fare accordi con lo Stato islamico.
Ecco gli articoli:
Daniel Mosseri: "Erdogan castigatutti"
Daniel Mosseri
Berlino. Come scrive il giornalista e scrittore turco Cengiz Candar, il 30 agosto è sempre stato un giorno di festa nel suo paese. Parate militari nelle città, cocktail più o meno alcolici nei circoli ufficiali delle Forze armate così come nelle ambasciate turche all’estero, cerimonie commemorative davanti ai monumenti dedicati al fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürk, il cui volto appariva ovunque. Orfani dell’Impero ottomano ma guidati da Kemal, il 30 agosto 1922 i turchi sconfissero i greci invasori a Dumlupinar, e la battaglia fu decisiva per la guerra d’indipendenza. “Formalmente è il giorno della vittoria ma in effetti è il giorno delle Forze armate”, osserva Candar. Non lo è stato quest’anno.
Un mese e mezzo dopo il tentato golpe militare del 15 luglio, il governo del primo ministro Binali Yildirim, fedelissimo del presidente islamico Recep Tayyip Erdogan, ha cancellato i festeggiamenti dedicati all’esercito. Al loro posto il governo ha dato un ulteriore giro di vite alla libertà di stampa in nome della repressione del terrorismo di stampo gulenista. Gulenista ma non solo, perché fra i rappresentanti della stampa turca il governo a trazione islamica ha trovato nemici e avversari di ogni provenienza: non solo seguaci di Fethullah Gülen – l’uomo che dal suo esilio statunitense avrebbe a più riprese tentato di rovesciare l’ordine costituito – ma anche sostenitori della causa curda o reporter indipendenti accusati di aver violato la legge antiterrorismo. Fra questi c’è per esempio Can Dündar, l’ex direttore di Cumhuriyet. Dündar fu arrestato nel novembre del 2015, e cioè prima del golpe, perché il suo giornale aveva svelato come l’intelligence turca avesse fornito armi ai combattenti dei gruppi islamisti attivi in Siria contro il governo di Bashar al Assad. Scarcerato per ordine della Corte suprema, il giornalista ha lasciato il suo paese, dove è condannato a dieci anni di carcere.
In Europa Dündar è conosciuto, premiato, ascoltato, ma per ogni Dündar famoso all’estero, in Turchia restano dozzine di giornalisti più o meno noti alla mercé della vendetta del duo Erdogan-Yldirim. Questo è stato il 30 agosto, scrive ancora Candar su al Monitor: “Al posto delle fanfare, una nuova ondata di intimidazioni e di soppressione del giornalismo indipendente. La giornata si è aperta con una serie di raid polizieschi a casa di numerosi reporter di fama mondiale”. I loro nomi sono stati diffusi da Platform24.org, “una piattaforma”, nelle parole di Candar, “per il giornalismo indipendente fondata da Hasan Cemal, già direttore di Cumhuriyet, e decano dei giornalisti turchi con all’attivo 50 anni di esperienza”.
L’ultima campagna di Platform24 riguarda la condizione dei giornalisti turchi sotto lo stato d’emergenza, proclamato da Erdogan all’indomani del golpe fallito di metà luglio. Fra gli ultimi arresti “ci sono anche 14 o 15 giornalisti curdi che sono stati rilasciati nemmeno una settimana fa”, dice al Foglio uno dei principali attivisti della piattaforma. Non si tratta di un giornalista sconosciuto ma di uno dei volti più noti della televisione turca, “ma chiedo che il mio nome non sia utilizzato”. La sua non è paura per possibili conseguenze personali – l’uomo è già stato ampiamente preso di mira dal governo – ma la volontà di dare spazio per una volta al sito web e alle liste con i nomi dei colleghi meno conosciuti. “Almeno 110 giornalisti sono in carcere, poi ce ne sono un’altra trentina presi in custodia dalla polizia: con le nuove norme il fermo di una settimana può essere esteso fino a un mese, fino all’arrivo di una decisione del magistrato sulla persona fermata”. I nomi degli incarcerati e dei fermati non sono raccolti in un solo file ma le liste si sprecano. Nella prima, aggiornata al 31 agosto, troviamo 162 giornalisti “fermati nel quadro delle indagini post golpe”: in rigoroso ordine alfabetico spiccano il primo, Abdullah Abdulkadiroglu, di Samanyolu tv, “che secondo l’agenzia Anadolu dovrebbe aver lasciato il paese” e l’ultimo Zeki Onal, rimasto ai domiciliari “per l’età avanzata e le cattive condizioni di salute”.
A seguire appare la lista dei “giornalisti incarcerati duranti lo stato d’emergenza al di fuori delle indagini sul golpe”: 65 nomi. Quindi una lista più breve: “Giornalisti fermati durante lo stato d’emergenza al di fuori delle indagini sul golpe”: dodici nomi. Chiudono l’ingloriosa pagina altre due liste: i reporter “arrestati prima dello stato d’emergenza” con 33 nomi – l’ultimo dei quali è un praticante – e tutte le testate chiuse per decreto in Turchia; qua si contano 16 canali televisivi, sei agenzie di stampa, tre dozzine di giornali, 16 riviste, 23 radio e un numero doppio di case editrici. Per quanto riguarda i nomi dei giornalisti “non riusciamo a essere più precisi, la situazione cambia di ora in ora, con nuovi rilasci e nuovi fermi”, riprende il responsabile della piattaforma, “ma il numero preciso non conta: l’importante è raccontare che ‘casino’ sta succedendo in Turchia”, dice in italiano. I lucchetti alla stampa non sono stati messi dalla mattina alla sera, beninteso. Prima del putsch di luglio “i giornalisti arrestati erano una quarantina”, principalmente simpatizzanti di Gü- len o della causa curda; il che non ha impedito nello stesso periodo l’arresto di Can Dündar grazie all’applicazione delle leggi anti terrorismo.
Dopo il 16 di luglio il crackdown contro la stampa si è fatto più aspro: “Fino ad allora Erdogan aveva avuto mano libera solo contro il Pkk, internazionalmente riconosciuto come organizzazione terroristica”. Nonostante gli sforzi di Ankara e le indicazioni del Consiglio per la sicurezza nazionale, nessun giudice aveva indicato che anche il movimento gulenista – Fetö lo chiama il governo – fosse dedito all’eversione. Così è stato invece dopo il golpe, e la collaborazione della magistratura “ha reso molto più facile per Erdogan l’arresto di sospetti gulenisti. Adesso il regime può colpire curdi e gulenisti indifferentemente”. La conclusione è particolarmente amara per tanti reporter indipendenti: lo scorso 16 agosto una corte di Istanbul ha ordinato la chiusura del quotidiano pro curdo Ozgür Gündem per diffusione di propaganda terrorista. Il direttore della testata ha subito lanciato un appello ai colleghi fuori della redazione: venite a una veglia per noi, scrivete un pezzo in nostro favore. “Quel giorno, all’ultima riunione della redazione sono andati tanti giornalisti liberali e di sinistra, non necessariamente curdi: chi ha preso la parola, chi ha scritto un editoriale. Oggi anche loro sono accusati di aver partecipato alle attività di un’organizzazione terroristica”.
David Carretta: "Lo stato dei migranti"
David Carretta
Bruxelles. Recep Tayyip Erdogan ha nelle sue mani una potente arma di ricatto nei confronti di un’Unione europea che si mostra indecisa di fronte alla sua repressione post golpe: da un momento all’altro, a sua discrezione, il presidente turco può riaprire la rotta dell’Egeo ai migranti e rilanciare una crisi che aveva portato il club dei Ventotto sull’orlo dell’implosione politica e istituzionale tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 per l’arrivo di più di un milione di rifugiati. Se i flussi tra la Turchia e la Grecia si sono ridotti sensibilmente, non è grazie al complicato accordo firmato il 18 marzo dall’allora premier di Ankara, Ahmet Davutoglu, e dai leader dell’Ue. Tra pruderie legalistiche e complessità burocratiche, nulla o quasi di quel documento è stato attuato da parte europea. Mentre ci si prepara a festeggiare i sei mesi dalla sua adozione, poche centinaia di migranti sono stati rispediti in Turchia, migliaia di richiedenti asilo rimangono bloccati sulle isole greche, decine di migliaia di rifugiati sono alloggiati in condizioni disumane sulla terra ferma in Grecia.
La liberalizzazione dei visti promessa ai turchi è in stallo, così come il rilancio dei negoziati di adesione e il programma di reinsediamento dalla Turchia di decine di migliaia di rifugiati siriani. Se il numero di migranti arrivati in Grecia si è quasi azzerato è perché Erdogan ha mantenuto la parola sulla parte più politica – e non scritta – del patto del 18 marzo 2016: da aprile in poi la Turchia ha impedito ai migranti di imbarcarsi, in cambio del silenzio dell’Ue sugli abusi commessi da Ankara contro i suoi svariati oppositori. “Non è un contratto di fiducia, ma un contratto di interesse reciproco”, ammette al Foglio un alto funzionario comunitario. L’accordo Ue-Turchia doveva funzionare sulla base di un semplice meccanismo: tutti i migranti irregolari arrivati sulle isole greche dopo il 20 marzo – compresi i rifugiati siriani – sarebbero stati rimandati in Turchia.
Per evitare espulsioni collettive vietate dal diritto internazionale, i leader dell’Ue si erano inventati un espediente giuridico: le richieste di asilo sarebbero state analizzate individualmente, ma giudicate “infondate” o “inammissibili” perché la Turchia è considerata un “paese sicuro”, in grado di fornire protezione internazionale a chi fugge da guerre e persecuzioni. La Commissione aveva promesso un esercito composto da migliaia di interpreti e giudici per analizzare le richieste di asilo e funzionari Frontex per procedere ai rimpatri. Ma la grande macchina burocratico-legale si è inceppata al primo cavillo: quasi tutti i 12 mila migranti sbarcati dal 20 marzo in poi hanno chiesto asilo e i giudici si sono rifiutati di dichiarare la Turchia un “paese terzo sicuro” per i siriani.
Così, in sei mesi, solo 484 migranti sono stati riaccompagnati alla frontiera turca. Tra loro ci sono 41 siriani, “ma tutti su base volontaria”, precisa una fonte della Commissione: o non hanno chiesto asilo o hanno ritirato la domanda. Iracheni, iraniani e afghani non possono essere espulsi perché la Turchia non garantisce loro protezione internazionale. Secondo l’alto funzionario consultato dal Foglio, i dodicimila sulle isole si trovano “in un buco nero. Senza un gesto di generosità della Germania o un’espulsione di massa verso un paese terzo, non hanno chance di partire”.
Le organizzazioni non governative moltiplicano le denunce sulla situazione umanitaria nelle isole. Secondo l’Unhcr 12.515 migranti si trovano nei centri di Lesbo, Chios, Samos, Leros e Kos, contro una capacità di accoglienza di 7.450 persone. Nei campi si moltiplicano le proteste e gli scontri tra i vari gruppi etnici e religiosi. L’unico modo per sperare di essere trasferiti verso il porto del Pireo ad Atene è rientrare nella categoria di “persone vulnerabili”: bambini, donne in gravidanza, anziani o malati. “E’ la ragione per cui molte donne si fanno mettere incinta nelle isole”, dice un altro responsabile europeo. Ma le condizioni di accoglienza sulla terra ferma in Grecia, dove sono presenti 38.847 migranti, sono appena migliori, mentre si moltiplicano gli attacchi antimigranti. L’Ue aveva garantito “sostegno di emergenza” per aiutare Atene ad affrontare la situazione umanitaria. Alcuni paesi hanno inviato coperte, letti da campo e tende. Qualche centro di accoglienza è stato migliorato.
Ma il programma di relocation per redistribuire siriani, iracheni ed eritrei negli altri paesi europei non è mai decollato. Al 5 settembre, solo 3.493 rifugiati sono stati trasferiti sui 66.400 previsti per la Grecia dal meccanismo di ricollocamento. E, paradossalmente, il flusso potrebbe invertirsi: complice l’avanzata di Alternativa per la Germania nelle elezioni in Meclemburgo Cispomerania in Germania, il ministro dell’Interno tedesco, Thomas de Maizière, ha annunciato l’intenzione di fare in modo che “i rifugiati siano inviati indietro in Grecia secondo le regole di Dublino”. In realtà, il pericolo per la Grecia – e per l’Ue – è che si riapra la rotta dell’Egeo. Le cifre degli sbarchi delle ultime settimane hanno allarmato diversi osservatori. Tra aprile e giugno, il numero degli arrivi quotidiani era costantemente rimasto vicino allo “zero”, con punte massime di un centinaio di rifugiati. Dopo il fallito colpo di stato in Turchia del 15 luglio, si è registrata una netta tendenza al rialzo con una media di arrivi giornalieri ad agosto di 111 migranti, secondo l’Unhcr.
Il record è stato toccato il 29 agosto: 462 persone. Si è lontani dai 5-10 mila sbarchi quotidiani dell’autunno-inverno 2015-2016. Ma il trend è proseguito nei primi giorni di settembre, con 215 arrivi l’1, 110 il 4, 133 il 5. Gli analisti sono divisi sulle ragioni. Alcuni ritengono che la nuova battaglia per Aleppo abbia accelerato le partenze dalla Turchia. Altri sottolineano che il governo turco ha dovuto concentrare le sue forze di sicurezza interna sulla caccia ai gulenisti. Ma c’è anche chi sospetta che Erdogan abbia voluto inviare un messaggio agli europei. Le contese non mancano. Ankara si lamenta che gli europei non versano direttamente nel loro bilancio i 3 miliardi di aiuti per i rifugiati siriani in Turchia. Solo 1.268 rifugiati siriani sono stati reinsediati dalla Turchia nei paesi europei contro una richiesta di Ankara di 250 mila. La scadenza di fine ottobre per concedere la liberalizzazione dei visti si avvicina, ma lo stallo prosegue con la modifica della legge turca sull’antiterrorismo. Alcuni commissari, come il responsabile dell’Allargamento Johannes Hahn, hanno criticato la repressione erdoganiana dopo il golpe. Quale che sia la ragione dell’aumento degli sbarchi in Grecia, firmando il patto con gli europei, Erdogan si è messo nella posizione di influenzare la politica turca dell’Ue per gli anni a venire.
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