Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/08/2016, a pag.13, con il titolo " La resa del kibbutz di frontiera, c'è crisi, il collettivismo è finito ", il reportage di Davide Frattini.
La crisi del kibbutz è nata in Israele insieme a quella dell'economia socialista. Non è neppure originale, ovunque, in tutti i paesi socialisti/comunisti, anche quelli retti da economie collettiviste, prima o poi il fallimento era annunciato. Lo stesso è avvenuto in Israele alla fine degli anni'70, con la fine dei governi laburisti. Lo riporta Frattini, quando cita " ..in tanti hanno approfittato dell'organizzazione socialista, lavoravano poco perché comunque guadagnavano la stessa cifra..." Da quella crisi è nato un kibbutz diverso, in linea con la nuova economia di taglio capitalista, che avrà pure molti difetti, ma che ha trasformato un paese povero in uno ricco, l'unico fra tutte le nazioni democratiche occidentali ha non aver subìto la crisi nella quale ci dibattiamo ancora oggi.
Kerem Shalom ha una particolarità, che Frattini racconta bene, è a un palmo da Gaza. Ma i suoi componenti mica se ne vanno, hanno solo preso atto che l'economia di mercato è meglio di quella socialista. Se ne sono accorti in ritardo, ma ci sono arricati.
Ecco il pezzo:
Davide Frattini
KEREM SHALOM -La mensa comune è chiusa da febbraio e ha riaperto venerdì sera per la cena. L'ultima seduti insieme alla tavola con la tovaglia di plastica a fiori, il cibo portato da tutti, sulle pareti le foto di gruppo quando il gruppo era ancora numeroso. Prima di mangiare, gli abitanti di questo kibbutz che s'infila nell'angolo tra Israele, Egitto e la Striscia di Gaza hanno messo la loro ipotesi di futuro nell'urna di cartone. La maggioranza ha riconosciuto che la crisi economica si è trasformata in recessione degli ideali. Solo sei sui trentotto adulti hanno votato perché nulla cambiasse e Kerem Shalom (la Vigna della Pace) restasse socialista com'era nato quarantotto anni fa, quando una comitiva di anarchici e hippies era scesa nel deserto del Negev per farlo sbocciare con le speranze dei figli dei flori. Gli altri — ammettono con un sorriso già nostalgico — hanno scelto di «essere pragmatici». Che vuol dire cambiare lo statuto e trasformarsi da compagni in soci: stipendi differenziati, case e terreni a prezzi (quasi) di mercato, apertura verso chi lavora fuori e vuole vivere qui senza dover condividere le mansioni o i guadagni. Il movimento che raggruppa i kibbutz ha dato il beneplacito, da simbolo e avanguardia della nazione si è trasformato nell'esecutore fallimentare del sogno cooperativo: su 270 villaggi agricoli solo 50 restano comunitari. Da ieri sono 49. La freccia punta verso il basso e indica la porta blindata del rifugio, l'insegna dice «Pub colpo di mortaio», qua sotto si possono condividere una birra e la paura. Nel resto di Israele la Protezione civile ha calcolato quanti secondi restino prima dell'impatto dei razzi da quando suonano le sirene d'allarme: 90 a Gerusalemme o Tel Aviv, 30 ad Ashdod sulla costa verso sud, 15 a Sderot. Kerem Shalom non rientra nelle tabelle ufficiali, anche perché vicino al nome dovrebbe riportare uno scoraggiante zero. Gaza sta a settanta metri di distanza dall'altra parte del muro di cemento tirato su davanti alle finestre delle case. Nei 59 giorni di conflitto con Hamas tra il luglio e l'agosto di due anni fa le villette disabitate sono diventate le caserme dei soldati, ancora adesso due giovani sentinelle sorvegliano il cancello all'ingresso. La Vigna della Pace ha contraddetto il suo nome più di quanto i suoi fondatori avrebbero potuto immaginare: nel 2006 il caporale Gilad Shalit è stato rapito dagli estremisti palestinesi mentre era di guardia sul confine qua davanti, da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia con un colpo militare i ciclici scontri con Israele hanno sempre lasciato il segno sul villaggio come le schegge dell'esplosione nel muro del pollaio. «Il conflitto del 2014 è stato il colpo finale — racconta Rachel Eimkies mentre controlla che gli otto bambini dell'asilo non si picchino —: abbiamo lasciato le nostre case per troppo tempo, al ritorno qualcosa si era rotto, avevamo perso il senso della comunità». Che — ammette — stava già scomparendo: «In tanti hanno approfittato dell'organizzazione socialista, lavoravano poco perché comunque guadagnavano la stessa cifra. Abbiamo smesso di riunirci, di ritrovarci insieme il venerdì sera per la cerimonia dello Shabbat. Siamo diventati come un sobborgo di periferia». Rachel è arrivata cinque anni fa perché ci credeva: cresciuta in un kibbutz voleva ritrovare lo spirito di solidarietà, il calore della comunanza, per lei una protezione verso l'altra guerra, quella economica combattuta da individualisti in un Paese costruito su ideali e necessità egualitari ma dove le disuguaglianze sociali sono sempre più profonde. Così per sopravvivere i villaggi cooperativi rincorrono la «nazione start-up» che li sta lasciando indietro: da incubatori di pionieri e fondatori della patria (nel primo parlamento i kibbutznik erano 26, in quello in carica sono scesi a zero) a «incubators» di aziende ipertecnologiche. Adesso Kerem Shalom spera di attrarre nuovi residenti. Deve prima raccogliere i fondi che permettano di tappare i buchi nel bilancio e nel sistema di irrigazione. «Perché il villaggio non sembri troppo desolato» spiega Zohar Ronen, incaricato di curare i giardini. «Persino la sabbia del vicino è più verde» sta scritto tra l'ironico e il disperato sul cartello appeso dietro la scrivania. Il deserto e la polvere ricoprono tutto, anche l'entusiasmo di Evelina Zinchencho, che sui blocchi grigi alti nove metri del muro di protezione ha dipinto i personaggi di «Alice nel paese delle meraviglie»: nata in Ucraina, immigrata in Israele nel 1999, è arrivata dieci anni fa ispirata dai racconti sul comunismo della nonna. E attratta dalla vicinanza con il mare: solo dopo il trasloco ha capito che tra lei e il Mediterraneo passano il filo spinato e il corridoio di terra dove vivono quasi due milioni di palestinesi.
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