Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 06/08/2016, a pag.8, con il titolo "'Starò con l'Isis fin quando avrò vita' ma il giudice nega l'arresto per terrorismo" il pezzo di Dario Del Porto.
Consigliamo la lettura della cronaca di Dario Del Porto per capire come non funziona in Italia la guerra al terrorismo islamico. Per convincere certi giudici occorre che l'atto terroristico sia già avvenuto, solo in questo caso l'autore può venire giudicato tale. E' il risultato di anni di disinformazione, una responsabilità condivisa da tutte le istituzioni che influenzano la pubblica opinione, dal Vaticano ai media, da certi giudici a tutti quelli che non chiamano le cose con il loro nome. Il pezzo di Del Porto, chiaro e comprensibile, sarebbe perfetto se non avesse scritto "c’è però il progressivo processo di radicalizzazione dell’uomo che qualcuno chiamava “Bin Laden” ...". E' ora di chiamare terrorista il terrorista, eliminando la parola 'radicalizzazione' che serve solo a nascondere l'aggettivo corretto 'islamico', basta scriverlo dopo la parola terrorista, che l'attentato l'abbia già compiuto o che stia per compierlo, l'arresto dovrebbe essere obbligatorio.
Ecco il pezzo:
Dario Del Porto
Napoli- La jihad sui social non basta per finire in galera. Mohamed Khemiri, tunisino di 41 anni residente a San Marcellino in provincia di Caserta, su Facebook era scatenato: aveva giurato fedeltà allo Stato Islamico e invitato ad uccidere Barak Obama, aveva esultato per l’attentato a Tel Aviv e si era lanciato in interpretazioni complottistiche sul massacro nella redazione di Charlie Hebdo. Ieri è finito in carcere, ma non con l’accusa di terrorismo, come avrebbe voluto la Procura di Napoli. Il gip di Santa Maria Capua Vetere gli contesta di essere a capo di un’organizzazione che procurava agli immigrati documenti falsi e nozze combinate con i quali regolarizzare la posizione in Italia. Insieme a lui sono finite in cella altre quattro persone mentre a tre indagati è stato applicato l’obbligo di dimora. Sullo sfondo dell’inchiesta, partita dopo la segnalazione della magistratura di Bari, c’è però il progressivo processo di radicalizzazione dell’uomo che qualcuno chiamava “Bin Laden” e viene descritto, dal Ros dei carabinieri, come un fanatico pronto «in linea concettuale a colpire in Italia ». Per due volte, il pm Luigi Alberto Cannavale ha chiesto l’arresto di Khemiri, ritenendo che nelle intercettazioni, oltre che sul web, abbia dimostrato di essere «un soggetto estremamente pericoloso, in grado di adempiere perfettamente al suo compito di rilancio della propaganda jihiadista ». Il giudice Alessandra Ferrigno ha bocciato l’istanza perché, scrive, «comunicare in rete con taluni soggetti, commentare con qualche interlocutore in casa o in auto il contenuto di un canto, di un verso coranico o di un atto terroristico risulta al di sotto della soglia del proselitismo, della vera e propria propaganda. È una condivisione ideologica, pericolosa, ma non idonea a integrare estremi di reato. Altrimenti — sottolinea il gip — dovrebbe giungersi alla conclusione che sarebbe incriminabile sempre chiunque esprima esaltazione e condivisione di ogni attività delittuosa e di ogni progetto terroristico». Una dialettica che conferma le difficoltà di conciliare, in questi giorni di terrore, la logica della prevenzione con le ragioni dell’intervento giudiziario. Il gip ha comunque trasmesso alla Procura Santa Maria Capua Vetere, guidata da Maria Antonietta Troncone con l’aggiunto Antonio D’Amato, gli atti riguardanti le altre accuse contestate a Khemiri, quella di guidare il gruppo che si adoperava per favorire la permanenza irregolare in Italia di extracomunitari attraverso fittizi contratti e buste paga presso aziende tessili, false dichiarazioni di ospitalità e persino matrimoni di comodo. Intanto la Procura napoletana ha chiuso il suo filone di indagine ipotizzando per il 41 enne il reato di associazione terroristica o, in alternativa, quello di apologia del terrorismo. Quando a Parigi scoppia l’inferno, il 7 e l’8 gennaio 2015, con la strage al giornale satirico “Charlie Hebdo” e l’assalto al supermercato Kosher, il profilo di Khemiri «muta radicalmente sull’onda emotiva degli attentati », scrive il pm Cannavale, coordinato dall’aggiunto Fausto Zuccarelli. Sulla pagina Facebook che gli inquirenti attribuiscono a Khemiri, compaiono foto di combattenti con il vessillo nero del Califfato e post allarmanti. La sera del 7 gennaio, l’indagato ipotizza che gli attentati siano stati opera di servizi segreti con l’intento di far ricadere la colpa sui musulmani. Poi scrive: «Per quanto riguarda quel giornalista che ha fatto le vignette che ledono l’Islam senza alcuna pietà per lui ha avuto ciò che si merita». E ancora: «Dal mio punto di vista, l’operazione accaduta a Parigi è opera dei servizi segreti... ma se non fosse così, da parte mia l’appoggio con tutto il mio cuore... e se Dio vuole ciò che verrà è peggio e più amaro... è tutto già scritto». Commenti che inducono la Procura a ritenere «indiscutibile » l’adesione del tunisino alle tesi propugnate dal Califfato. Anche su twitter emerge, secondo l’accusa, «il progressivo avvicinamento dell’uomo a un’ideologia radicale e jihadista» che culmina con «l’autodichiarazione di appartenenza all’Is»: il 26 gennaio 2015, il 41 enne tunisino annuncia: «Sono isissiano finché avrò vita. E se morirò vi esorto a farne parte». Qualche giorno prima, aveva esultato per l’attentato terroristico compiuto a Tel Aviv, quando un arabo aveva accoltellato nove pendolari. «Allah è grande!!! La migliore mattinata della Terra Santa, 10 feriti durante un accoltellamento su un autobus a Tel Aviv. La polizia israeliana apre il fuoco sull’esecutore dell’atto. Che Dio benedica queste mani». Il percorso, secondo gli inquirenti, ricorda quello dell’attentatore che colpì a Copenaghen nel febbraio 2015: passato rapidamente dai social all’azione.
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