Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/08/2016, a pag. 32, con il titolo "L'albero, gli angeli, Adamo: lo splendore dei miti ebraici", la recensione di Pietro Citati.
Pietro Citati
Elena Loewenthal
Louis Ginzberg ha pubblicato a Philadelphia, tra il 1925 e il 1967, una grande raccolta in sette volumi di Legends of the Jews : presso Einaudi Elena Loewenthal stampa un eccellente libro di Miti ebraici , obbedendo al divertimento ed al piacere. Il libro comincia col tohu wahohu : un caos fatto di fiato leggero e consonanti dal suono sfuggente; un caos onomatopeico sul ciglio di un precipizio che cade nel nulla. Prima del tempo e dello spazio, il mondo esiste nella mente di Dio, con un gesto. Questo gesto si chiama Tsimtzum : riduzione. Il Signore si fa da parte per lasciar posto al mondo, il quale è l’assenza divina. Dio smette di riempire tutto il non essere, per permettere all’essere di esistere: questa autoprivazione è insieme sublime e piena d’angoscia. Il cuore del libro della Loewenthal è l’albero della vita: così grande, dice la tradizione, che ci vogliono cinquecento anni per compiere una distanza pari al diametro del suo tronco. Esso sta nel centro del giardino dell’Eden: l’albero della conoscenza del bene e del male forma attorno a lui una siepe di protezione. Soltanto chi attraversa i rami di quest’albero può accostarsi a quello della vita. Come dicono i primi capitoli della Genesi, Dio non vuole che questo accada, perché il suo frutto concede l’immortalità; e per questa ragione ha messo a guardia un cherubino dalla spada di fuoco.
L’albero della vita è bellissimo: Dio si riposa alla sua ombra. Produce negli uomini «un’anima supplementare», della quale entrano in possesso il Sabato, per assaporare più profondamente il giorno santo. Da un suo ramo Mosé ricava il proprio bastone, che trasforma in serpente, per convincere (inutilmente) il Faraone a lasciar partire dall’Egitto i figli di Israele. L’albero della vita è la Torah, che Dio ha dettato sul monte Sinai: sotto di esso dorme il profeta Elia, che discende sulla terra per compiere gli atti di giustizia ordinati da Dio . Con la parola Dio crea tutte le cose: soltanto una cosa non crea con la parola; Adamo, che foggia con la terra asciutta e friabile. Adamo è fatto di terra: il suo nome significa «terra»; la sua ragione di vivere sta nel fatto di lavorare il giardino dell’Eden, tenendolo in vita, e invocando la pioggia per renderlo rigoglioso. Quando Adamo ed Eva assaggiano il frutto dell’albero della conoscenza, acquistano la consapevolezza di essere nudi, e cuciono una foglia di fico per farsene una cintura. La nudità è il segno della loro vulnerabilità di fronte alla vita e alla morte. Prima di allora, i corpi di Adamo e di Eva erano rivestiti di una spessa pelle coriacea, e avvolti in una nube di gloria. Appena deglutiscono il primo boccone del frutto, sia la pelle coriacea sia la nube di gloria scompaiono.
La copertina (Einaudi ed.)
Le tombe di Adamo e di Eva — racconta la tradizione — sono scavate in fondo alla grotta di Ebron. I loro corpi continuano ad emanare l’aroma soave del Paradiso; e diventano sempre più soavi, via via che avanzano nel tempo. Alcuni angeli invisibili stanno di guardia all’ingresso della grotta, proteggendo il loro eterno riposo.
Il libro della Loewenthal ci rivela la figura, la bellezza e il profumo degli angeli, queste creature invisibili, non necessariamente buone, che vivono attorno a noi, nell’aria, nei ricordi e nelle speranze. Quando Dio creò Adamo, alcuni angeli furono felici, altri pieni di dubbi, mentre quello della pace immaginò la futura caduta. Quasi tutti gli angeli pensarono che non si doveva dare troppa importanza all’uomo, una creatura improvvisata, foggiata con un pugno di terra e un soffio d’aria. «Che è l’uomo da ricordarti di lui? Il figlio dell’uomo che tu ne debba avere cura?», dissero gli angeli a Dio. Gli angeli derisero la strana idea che Dio aveva avuto di plasmare, alla fine della creazione, quell’essere di carne, sangue, terra, parola. Essi furono gelosi dell’uomo. Ma, per un verso, rivelarono di essere inferiori all’uomo: quando Dio disse loro di dare un nome alle cose che aveva appena creato, non furono in grado di trovarlo; mentre Adamo scandì in perfetto ordine i termini di tutte le cose, dalle piante ai concetti. Gli angeli lo ascoltarono muti e sgomenti: poi chinarono il capo e si arresero, di fronte all’ultimo venuto, che sapeva tanto di più di loro in fatto di parole. Duecento angeli si calarono della cima del monte Hermon, per unirsi alle figlie dell’uomo, belle e seducenti; ed insegnarono loro incantesimi, segreti e magie. Da queste unioni nacquero enormi giganti, che devastarono tutte le cose; e corruppero gli uomini, sebbene insegnassero loro cose che non erano in grado di apprendere da soli. Enoc, l’unico uomo pio rimasto sulla terra, sentì una voce scendere dal cielo: «Enoc, scriba giusto, vai dagli angeli che hanno abbandonato i luoghi celesti contaminandosi con le donne: vai da loro, e annuncia che non troveranno né pace né perdono». Nacquero gli spiriti maligni della terra, che divorarono, oppressero, tesero agguati, minacciarono gli uomini e le donne, attentando alla pace e portando il male ovunque.
Tra questi angeli, apparve l’Angelo della Morte, che si dice, in ebraico, Malakh Hamawet , un nome quasi dolce. Era pieno di occhi scintillanti, che nessuno poteva sopportare: era altissimo e minaccioso; ci volevano cinquecento anni per coprire una distanza pari alla sua statura. Chi lo scorgeva, trasecolava: si bloccava per lo stupore, spalancava la bocca; ed in quel momento, l’Angelo della Morte vi lasciava cadere la pozione che dava la morte. Soltanto Mosé ebbe il privilegio di morire non per mano dell’Angelo della Morte, ma di un bacio di Dio sulla bocca. Mosé fu il più grande tra i profeti ebraici. Egli parlò al posto del Signore, ma soprattutto con il Signore. Nessuno parlò tanto con Lui: Abramo Lo ascoltò in silenzio; Giacobbe lottò in sogno con Lui. Tranne Mosé, nessuno ha mai discorso con Dio «bocca a bocca», senza restare folgorato dalla sacrosanta presenza divina.
Trascrisse parola per parola la Legge dettata sul monte Sinai: scorse la terra che il Signore aveva promesso ad Abramo e ai suoi discendenti; e giunse al punto di intravedere la distruzione del tempio di Gerusalemme, la più rovinosa di tutte le distruzioni possibili. Il colore celeste ( tekhelet ) era diverso da tutti gli altri colori della tradizione ebraica: assomigliava al firmamento, il quale assomiglia a sua volta al Trono della Gloria. Esso era il colore di cui avrebbero dovuto essere le frange, poste ai quattro angoli dello scialle della preghiera. Quando esisteva ancora il tempio di Gerusalemme, il color celeste appariva sui paramenti del Sommo Sacerdote. Allora il culto dell’eterno si praticava soltanto nel tempio: sacrifici, offerte, fumo che saliva in cielo. Ora il tempio non esiste più: in nessun altro luogo del mondo un ebreo può prestare il proprio culto; egli può pregare soltanto con le parole — l’unica cosa che ci sia rimasta.
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