Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/08/2016, a pag. 17, con il titolo "L'oleodotto segreto nel deserto di Israele", l'analisi di Davide Frattini.
Davide Frattini
La posa dell'ultima condotta dell'oleodotto Ashkelon-Eilat, nel 1969
Il cartello indica la strada per entrare, la guardia armata invita a restare fuori, a ripercorrere all’indietro il viale colorato dai fiori di carta della bougainvillea. Circondata dalle dune, la Eilat Ashkelon Pipeline Company pubblicizza quello che in realtà vuole mantenere segreto. Il simbolo con i tubi e la petroliera stilizzati sui cancelli, i depositi per il greggio, l’andirivieni dei camion verso il porto: tutto è visibile, alla luce abbagliante del sole sul Mediterraneo. Eppure la società è coperta dal segreto di Stato, protetta dalla censura militare. Gli israeliani non possono sapere i nomi di chi siede nel consiglio di amministrazione, in un Paese dove ormai è pubblica perfino l’identità del capo del Mossad. Le attività dell’Eapc sono insabbiate come il fiume nero che ha allagato il deserto del Negev nella notte del 3 dicembre 2014.
I cinque milioni di litri sono fuoriusciti da una rottura nell’oleodotto, hanno invaso la riserva naturale di Evrona, contaminato i tronchi delle acacie centenarie, le pozze dove si abbeverano duecento gazzelle. Pochi giorni dopo le ruspe hanno coperto la chiazza scura e densa con terra arida, in superficie non si vede più nulla, sotto i danni possono durare decenni. È considerato il disastro ambientale più grave nella storia di Israele, la causa contro la società va avanti da mesi, le associazioni ecologiste continuano a presentare petizioni per riuscire a identificare i responsabili. Orit Kratz, l’avvocata che rappresenta il governo, ha dichiarato in tribunale «di non poter confermare o negare che esistano legami tra l’Eapc e lo Stato».
Il disastro ambientale del 2014
I giudici hanno di recente respinto la richiesta di togliere Benjamin Netanyahu dalla lista dei querelati, è improbabile che il primo ministro accetti di andare in aula a testimoniare. Perché — spiega il quotidiano Haaretz — la riservatezza che offusca le operazioni della compagnia è considerata vitale dal premier. Che insisterebbe a tutelare l’Eapc per colpire il nemico più irriducibile. L’oleodotto è stato costruito nel 1968 con investimenti al 50 per cento iraniani. Allora al potere c’era lo Scià che aveva richiesto la clausola di riservatezza per non pubblicizzare troppo tra i vicini mediorientali i buoni rapporti con lo Stato ebraico. Dopo la rivoluzione islamica del 1979, Israele da socio in affari diventa il Piccolo Satana, ancora più detestato dagli ayatollah del Grande (l’America). Il premier Menachem Begin impone di non pagare più i dividendi a un Paese ormai ostile, l’oleodotto continua a pompare greggio. Da ventidue anni gli iraniani cercano di recuperare quello che spetterebbe loro, i tribunali in Svizzera e in Francia a cui si sono rivolti per l’arbitrato internazionale calcolano il debito accumulato e il risarcimento in oltre 1 miliardo di dollari. Per il regime riuscire a spillarli sarebbe una vittoria politica e strategica. Per Netanyahu è inaccettabile doverli pagare: come sovvenzionare — ragionano i suoi consiglieri — gli armamenti della nazione che proclama di volerci distruggere.
Aluf Benn, direttore di Haaretz , sostiene che la segretezza vada superata: «I manager dell’Eapc godono di privilegi stravaganti e straordinari, se confrontati a quelli di altre aziende pubbliche. I dossier della Corte dei Conti che criticavano duramente la gestione sono stati seppelliti e dimenticati». La serie di articoli dedicati dal suo giornale alle attività della compagnia petrolifera è stata condannata dalla censura militare perché avrebbe «danneggiato la sicurezza del Paese». Anche Tamar Zandberg, deputata all’opposizione con la sinistra radicale di Meretz, chiede che la riservatezza venga in parte rimossa, lo scrive in un’interpellanza al procuratore generale dello Stato: «Gli israeliani hanno diritto di conoscere i salari, le qualifiche, i bilanci, gli investimenti di un gruppo in cui — pare — finiscono anche i loro soldi».
La linea a zig zag mostra il percorso dell’oleodotto dal porto di Ahskelon a Eilat sul Mar Rosso. La strada alternativa per il petrolio era stata voluta dal governo israeliano per sottrarsi agli eventuali ricatti economici del leader egiziano Gamal Abdel Nasser che minacciava di chiudere il canale di Suez ai traffici internazionali. La mappa sta appesa negli uffici a Tel Aviv di Adam Teva v’Din, l’organizzazione ambientalista che guida le petizioni alla Corte Suprema e le cause per danni delle comunità nel Negev. «La segretezza impedisce di risalire — spiega l’avvocata Leehee Goldenberg — ai responsabili della fuoriuscita di petrolio». Indica la cartina, il filo di tubi che unisce il Mediterraneo al triangolo dove Israele incontra la Giordania e l’Egitto: «Quali sostanze scorrono lì dentro? In quale direzione? È ancora greggio? Quanto è tossico? Per garantire il “segreto di Stato” la gente non può neppure sapere che cosa le scorra vicino a casa».
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