Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/07/2016, a pag. I, la breve "'Trump può salvare i repubblicani', scrive Tanenhaus".
Sam Tanenhaus
Donald Trump
Roma. “Così Trump può salvare il Partito repubblicano”, s’intitola l’ultimo intervento di Sam Tanenhaus apparso sull’edizione domenicale del New York Times. Tanenhaus, già direttore della New York Times Book Review e autore del libro “The Death of Conservatism”, sostiene la tesi – tutt’altro che mainstream – secondo la quale “i conservatori dovrebbero ringraziare Trump per aver sollevato i veri problemi del Partito repubblicano”. Aver battuto 16 concorrenti repubblicani alle primarie e aver conquistato la maggioranza degli elettori del GOP in 37 stati non è stato solo un colpo di fortuna. Si prenda il commento rilasciato da Trump nella sua trasferta scozzese all’indomani del referendum pro Brexit: “Le persone vogliono vedere dei confini. Non vogliono a tutti i costi che altre persone si riversino nei loro paesi se non sanno nemmeno chi siano queste persone e da dove arrivino”.
Per Tanenhaus, “questa spicca come una spiegazione a tutto tondo delle rabbiose proteste populiste che attraversano molte democrazie occidentali”. “I sentimenti in questione potranno essere inquietanti, ma richiedono attenzione. (…) Piuttosto che proporre programmi concreti per aiutare la classe media e i poveri, le élite dei Repubblicani continuano a insistere sul fatto che il pericolo maggiore per la nostra sicurezza economica è lo stato in sé”. Uno dei più rampanti sfidanti di Trump, Marco Rubio, amava ripetere che il presidente democratico Barack Obama vuole fare assomigliare l’America “al resto del mondo”: “La verità, che Trump con tutti i suoi limiti riconosce chiaramente, è che l’America è già come gli altri paesi occidentali, sballottata dalla globalizzazione e dalle conseguenze della Grande recessione”. Secondo il commentatore del New York Times, quella di Trump – con il suo implicito ammiccamento anche agli elettori ultra liberal di Bernie Sanders – è innanzitutto la rivincita contro i figliocci del senatore Barry Goldwater, candidato per i repubblicani alle presidenziali del 1964, colui che “suggerì di fare a meno della tradizionale piattaforma programmatica del partito per sostituirla con una ‘dichiarazione di princìpi’.
Goldwater ebbe ragione, ma non immediatamente”. Tanenhaus infatti sottolinea la capacità che presidenti repubblicani come Ronald Reagan e George H. W. Bush ebbero di “fare compromessi” con i democratici. “L’attuale credo conservatore contro Trump indugia sul rigetto e l’ignoranza del candidato in pectore rispetto a certi stereotipi ideologici. ‘Di base, non dice mai freedom o liberty. Non dà segno di preoccuparsi della Costituzione’, ha imputato a Trump il direttore della National Review, Rich Lowry. Mentre un’altra firma della rivista, Ramesh Ponnuru, lo scorso ottobre ha scritto: ‘Trump, in breve, ha ignorato i princìpi storici e basilari del conservatorismo che sembravano essere diventati ancora più importanti nella fase dei Tea Party’. Abbastanza vero – scrive Tanenhaus – Ma d’altronde quelle certezze non prendono nemmeno in considerazione le preoccupazioni dell’ampia base elettorale che ancora devono vedere i benefici della ripresa economica”.
Trump non si è fatto mancare sortite nel campo fiscale, con promesse di abbassamento delle tasse, “ma si è anche presentato come un negoziatore pronto al compromesso che sbloccherà il motore inceppato dello stato. (…) La sfida per lui sarà quella di convincere gli elettori che egli possa davvero migliorare le condizioni degli americani della working class e della middle class, e non solo capitalizzare il loro scontento. (…) Il trumpismo, se non Trump in persona, potrà riportare il Partito repubblicano a quel conservatorismo pragmatico di presidenti come Eisenhower e Nixon”.
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