Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/07/2016, a pag. 1-2, con il titolo "Manovre turche sull'islam austriaco", l'analisi di Matteo Matzuzzi; con il titolo "Il poker diplomatico di Erdogan", l'analisi di Daniel Mosseri.
Matteo Matzuzzi: "Manovre turche sull'islam austriaco"
Matteo Matzuzzi
La Turchia di Erdogan, un cavallo di Troia per scardinare l'Europa
Roma. Lo scorso inverno, l’Università di Vienna pubblicava un rapporto in cui si osservava come le scuole per l’infanzia della capitale austriaca fossero controllate da “intellettuali salafiti e islamisti politici”, la cui azione era finalizzata a favorire un “isolamento teologicamente motivato” dei bambini di religione musulmana. Il documento smentiva, quindi, quanto la locale Comunità religiosa islamica (IGGiÖ) aveva comunicato qualche mese fa, e cioè la messa al bando completa da ogni istituto austriaco di libri di testo con una linea anti occidentale. Lo studioso islamico Ralph Ghadban, origini libanesi ora di base a Berlino, spiega che la ragione di tale deriva – che dura da qualche anno ma che solo nell’ultimo biennio è emersa con tutta la sua forza – è una sola e va ricondotta all’espansione politica e culturale, da grandeur, della Turchia. Basta visitare qualche moschea austriaca finanziata e mantenuta in piedi da Ankara e ci si rende conto di come stiano le cose.
In quei luoghi, dice Ralph Ghadban, dominano “i forti toni turco-nazionalistici” e quindi si predica una “netta separazione dai valori individualistici dell’occidente”. Il che è preoccupante, se si considera che – come ha scritto il Gatestone Institute riportando statistiche ufficiali – oggi nelle scuole medie e secondarie di Vienna gli studenti musulmani sono più numerosi di quelli cattolici. Una tendenza che presto si vedrà anche negli istituti elementari. Numeri che hanno già causato un mutamento demografico nel paese, che si accompagna a un massiccio incremento dei fedeli di culto islamico. Il ruolo della Turchia nella partita è chiaro anche da quanto avvenuto a metà giugno, quando si è scelto il nuovo presidente della Comunità islamica austriaca. A ottenere l’incarico è stato Ibrahim Olgun, ventottenne teologo di origine turca, che ha preso il posto di Fuat Sanac, dimissionario in seguito alle forti pressioni esercitate su di lui da Ankara, che lo accusava di aver avallato la legge sull’islam varata un anno fa dal governo di Vienna.
Il provvedimento, che dopo due anni di discussioni aveva mandato in archivio la vecchia legge del 1912 promulgata da Francesco Giuseppe imperatore, regola le relazioni tra lo stato e le quattrocentocinquanta organizzazioni islamiche presenti sul territorio. L’estrema destra aveva votato contro: nessun accordo né regolamentazione, perché “l’islam non appartiene all’Austria né sul piano culturale né su quello storico”, aveva detto il leader della Fpö, Heinz-Christian Strache. Polemici erano stati anche gli esponenti dell’Unione turco-islamica viennese: “La legge sull’islam è stata trasformata in una legge sulla sicurezza”. Decisivo per la sorte di Sanac, il parere del potente Mehmet Gormez, responsabile per gli Affari religiosi di Ankara, che aveva biasimato il tentativo di “crearsi una propria versione di islam”.
Olgun, giovane e ben introdotto nell’Unione turco-islamica austriaca (che altro non è che un’organizzazione finanziata direttamente dal governo di Recep Tayyip Erdogan), appare come l’uomo perfetto per condurre dinanzi alla Corte costituzionale del paese la battaglia per cancellare la legge, assai invisa a oriente del Bosforo. Scriveva un anno fa il quotidiano Daily Sabah che, di fatto, la normativa “mette al bando il dipartimento per gli Affari religiosi di Ankara, visto che non potrà più fornire assistenza finanziaria, inviare pubblicazioni ai musulmani al di fuori del paese e formare in patria gli imam”.
La nomina di Olgun è contestata da ben otto gruppi che confluiscono nella Comunità religiosa islamica d’Austria, soprattutto perché il Consiglio della Shura – che ha materialmente eletto Olgun – è composto solo da turchi, ignorando che per la carica è necessario avere almeno trentacinque anni d’età. Il nuovo presidente alza le spalle e promette di “rappresentare tutti i musulmani”, sottolineando che mai si farà influenzare da Erdogan, dai suoi consiglieri e finanziatori. I più determinati nel contestare la sua scalata sono i membri arabi della Comunità, che parlando di elezione “antidemocratica e illegale”, paventando il rischio di un’egemonia turca sulle moschee austriache, considerato che l’Unione turcoislamica – a capo della quale c’è un incaricato d’affari dell’ambasciata di Ankara a Vienna – controlla già una sessantina di luoghi di culto in Austria, dirette da imam stipendiati direttamente dallo stato di cui Erdogan è presidente.
Daniel Mosseri: "Il poker diplomatico di Erdogan"
Daniel Mosseri
Berlino. La Turchia punta a “buone relazioni” con Siria e Iraq. Parola del premier turco Binali Yildirim. “Amplieremo il raggio delle amicizie – ha detto ieri – Abbiamo già iniziato a farlo. Abbiamo proceduto con la normalizzazione dei rapporti con Israele e Russia. Ora sono certo che arriveremo alla normalizzazione delle relazioni con la Siria. Ne abbiamo bisogno”. Non è l’unica appariscente svolta in arrivo da Ankara negli ultimi giorni. Rifarsi una verginità sulla scena internazionale, rafforzarsi su quella interna. Sono questi gli obiettivi del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, intenzionato pure a naturalizzare quasi tre milioni di profughi siriani residenti in Turchia. “Concedere loro la cittadinanza farebbe gli interessi del nostro paese e migliorerebbe la condizione dei rifugiati”, ha dichiarato lo stesso capo di stato. Le sue parole sono state accolte da un triplice no da repubblicani (Chp), nazionalisti (Mhp) e progressisti curdi (Hdp).
Repubblicani e nazionalisti turchi accusano Erdogan di utilizzare i profughi siriani come strumento per aumentare il consenso del suo partito (Akp) e come grimaldello per modificare la struttura demografica nel sud-est del paese; per i progressisti curdi (Hdp) l’operazione è destinata a far aumentare la violenza e il pregiudizio contro le minoranze. Chi ha ragione? Tutti, compreso Erdogan. Secondo Yasar Aydin, turcologo dell’Università di Amburgo, il rafforzamento dell’Akp sarebbe automatico: “Stiamo parlando di un nemico di Assad che apre alle vittime della guerra civile in Siria. E’ evidente che alle prime elezioni, Erdogan incasserebbe almeno due milioni di nuovi consensi”. Le proteste dei curdi sono poi disinnescate in partenza: “Nessuno può dire al governo ‘questa è una zona curda, qua non li vogliamo’”.
L’operazione sarebbe invece più difficile sotto il profilo economico poiché “molti siriani sono lavoratori poco qualificati: una categoria già abbondante in Turchia”. Secondo Jean Marcou, docente di Relazioni internazionali a Sciences Po a Grenoble, naturalizzare i siriani permetterebbe al presidente di rafforzare il blocco sunnita e conservatore sui cui poggia l’Akp, un partito che raccoglie molti consensi anche fra i curdi. Visti dall’esterno, argomenta il docente, sembra che i curdi siano tutti per il Pkk e contro lo stato islamico, “ma non è certo così: ci sono nazionalisti conservatori, progressisti, islamici pro Akp, e veri e propri gruppi jihadisti”. E’ d’accordo Aydin secondo cui il Pkk è “ben lontano” dall’aver coagulato il consenso della maggioranza dei curdi. Per cui un curdo islamico del sud-est voterà Akp allo stesso modo di un siriano islamico con il nuovo passaporto turco. La mossa di Erdogan è anche parzialmente obbligata, concordano i due accademici: se domani in Siria scoppiasse la pace solo un quarto dei profughi vorrebbe tornare a casa, meglio dunque integrarli che lasciarli nel limbo attuale di “ospiti temporanei”.
Sulla scena internazionale, Erdogan potrebbe poi presentare la Turchia come paese di immigrazione guardando l’Europa dall’alto in basso: voi li respingete, noi addirittura li naturalizziamo. I propositi del presidente confermano la sua recente svolta in politica estera: meno ideologia e più pragmatismo. Finita la spinta anche finanziaria della primavera araba, il medio oriente ha voglia di normalizzazione, spiega Marcou. La tensione fra Turchia e Russia, per esempio, “porta solo a grossi danni economici fra i due paesi”. Lo stesso vale per Israele, paese messo all’indice per sei anni anche per accrescere il prestigio turco nel mondo arabo. “Le relazioni con gli arabi non sono più tanto buone: perché dunque restare in conflitto con Israele? Gli scambi fra i due paesi sono importanti e la Turchia ha bisogno di uscire dall’isolamento”. Sullo stesso tasto preme anche Aydin: “Israele, non dimentichiamolo, è una democrazia, un bene raro in questa regione”. La prossima apertura di Erdogan sarà forse verso l’Egitto, paese con cui i rapporti sono pessimi: il sultano ha sempre sostenuto l’ex presidente islamico Morsi. Il generale al Sisi se l’è legata al dito e per riallacciare con il Cairo servirà più tempo.
Per inviare la propria opinione al Foglio, telefonare 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante