Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/07/2016, a pag. 24, con il titolo "L'esperienza di Israele nella lotta al terrorismo", il commento di Maurizio Caprara.
Maurizio Caprara
Le organizzazioni terroristiche studiano, si aggiornano, ricavano insegnamenti dalle esperienze di formazioni armate straniere. Così fanno gli apparati degli Stati che le combattono, ma gli esempi di maggiore efficacia nel resistere alle offensive stragiste meritano di essere conosciuti anche dalle società potenzialmente bersagli di molteplici attacchi. Ridurre il terrore provocato dal terrorismo — non la consapevolezza della minaccia — è una necessità. Richiede capacità di prevenire gli attentati, di affrontarli adeguatamente preparati, di circoscrivere lo smarrimento dopo incursioni sanguinose e di saperlo superare. Mentre le cronache descrivono ancora dettagli delle stragi di due sabati fa a Dacca e del 28 giugno all’aeroporto «Ataturk» di Istanbul, Israele può fornire insegnamenti utili.
È un Paese di circa otto milioni di abitanti. Dal 13 settembre dell’anno scorso, a causa di azioni terroristiche di gruppi o singoli palestinesi ha subito la morte di 40 persone e il ferimento di 511 (inclusi quattro palestinesi). Gli accoltellamenti a sorpresa sono stati 155, compresi i 76 tentati. Gli attacchi con armi da fuoco 96, gli speronamenti e investimenti con auto 45. Eppure a Gerusalemme, a Tel Aviv, in centri più piccoli la popolazione non ha rinunciato alla propria vita di tutti i giorni. Violenza e terrorismo di origine palestinese hanno ucciso dal 2000, secondo i conteggi del governo israeliano, oltre 1.300 persone. Non si tratta qui di esaminare l’intera e complessa questione israelo-palestinese, bensì di constatare che l’abitudine a convivere con il terrorismo, seppure al prezzo di dolore e sforzi, non ha impedito alla società dello Stato ebraico di ottenere risultati positivi.
Tra il 2004 e il 2013 Israele ha avuto una media di sviluppo economico di circa il 5% all’anno. Anche quando tensioni internazionali lo hanno contratto, il tasso di crescita è stato migliore del nostro: nel 2015, il 2,5%. Le vittime sarebbero state di più se la prevenzione non fosse stata di alto livello. Che numerose pattuglie della polizia israeliana — 29 mila dipendenti — compiano ricognizioni frequenti delle strade lo si vede (e serve). Meno si sa che per i pattugliamenti vengono cambiati continuamente ritmi e percorsi, anche agli agenti in borghese. Il terrorista, per sua natura, deve sorprendere. Dunque va sorpreso. Non deve avere modo di decidere le proprie mosse calcolando in anticipo e con certezza quelle del nemico. Gli israeliani sono tempestivi nel segnalare a chi vigila il pacco o la persona che può esporre a rischi i concittadini. Questa propensione deriva da un’inclinazione a vita comunitaria, altro fattore che favorisce verso i feriti e le famiglie delle vittime una solidarietà profonda.
Gli addetti alla sicurezza sono tenuti a studiare le aree di propria competenza. Si tratti di sinagoghe, centri commerciali o altro, ne devono conoscere ingressi, uscite, tragitti lungo i quali ci si muove. In Italia, invece, spesso a piantonare edifici vengono mandati militari che non sanno nulla delle le strade della zona. Conoscere i posti è essenziale. Perché la regola, in Israele, è che in caso di attentato chi vigila nella zona deve intervenire subito per neutralizzare gli attentatori, non dare loro modo di conquistare spazi o ostaggi. L’Italia, dal 1969 agli anni Ottanta, ha convissuto con bombe in luoghi pubblici e su treni senza perdere la razionalità. Ha sofferto, non si è avvilita. È un patrimonio da non dimenticare mentre il terrorismo integralista islamico cerca di insidiare altri musulmani, l’Occidente e, come dimostrato in Bangladesh, anche noi. L’esperienza di Israele può arricchire un patrimonio prezioso.
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