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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.07.2016 L'esempio di Elie Wiesel
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: Corriere della Sera
Data: 07 luglio 2016
Pagina: 26
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «L'esempio di Wiesel contro i genocidi»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/07/2016, a pag. 26, con il titolo "L'esempio di Wiesel contro i genocidi", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

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Elie Wiesel

Tutto ha inizio in un mondo oggi scomparso, ai confini della Rutenia, della Bucovina e della Galizia; nomi di Paesi perduti che furono la gloria dell’impero degli Asburgo come del giudaismo europeo, e di cui settant’anni dopo restano solo palazzi in rovina, chiese barocche vuote e sinagoghe mai ricostruite. Uno degli ultimi testimoni di questo mondo perduto, svuotato dei suoi ebrei e delle sue opere, è appena morto.

Si chiamava Elie Wiesel. Ha vissuto molti più anni del popolo cancellato dei suoi fratelli. Ma ha voluto che questa cancellazione fosse la sua seconda nascita; ha dedicato la propria vita a resuscitare, nel tremore, gli umili destini in forma di tenebre e di fiamme dei propri fratelli. È questo infatti che tengo a mente pensando alla vita dell’autore di La notte e di Celebrazione hassidica.

Elie Wiesel ha frequentato i più grandi di questo mondo. Molto presto ha raggiunto la gloria immensa, mondiale, durevolmente iconica quanto quella di un Yehudi Menuhin. Non ha mai smesso di essere un yehudi, un piccolo ebreo, un sopravvissuto il cui cuore batteva all’improvviso troppo forte nel passare la dogana degli aeroporti di New York o di Parigi. E quel che tengo a mente è che si assegnò un compito, uno solo, impossibile e al tempo stesso categorico; un compito che fu, per tutta la sua vita — con l’unica risorsa della lingua, che poi non era quella materna ma dell’orfanotrofio, appresa a quindici anni presso le Opere di Soccorso ai bambini deportati, la lingua francese, così estranea e che fu un’altra sua passione — il compito, dunque, di diventare la tomba vivente, il cenotafio dei mendicanti del ghetto di Sighet, degli Hasidim con le loro goffaggini da clown, o del vicino di Lager che davanti al silenzio di Dio recita il kaddish, la preghiera per i morti. Vite minuscole, svanite in cenere e fumo, mutate in polvere o in ricordo senza consistenza e di cui, senza di lui, non resterebbe alcuna traccia, alcuna eco. Non so se Elie Wiesel fosse un «grande» scrittore.

Sono del resto convinto che anch’egli pensasse, come l’altro mio amico Benny Lévy, che un ebreo come lui non fosse venuto al mondo per «fare» letteratura. E la sua opera non ha, in effetti, né la sublimità inaccessibile di Kafka, né la potenza paradossale di Proust né, forse, la grazia laconica di Paul Celan il quale, a proposito del loro comune Paese, osservava che vi si incontrano soltanto libri e uomini. Ma è una delle rare persone ad avere detto l’indicibile sui campi di concentramento. Egli condivide con Primo Levi e Imre Kertész — ce ne sono stati tanti altri? — il terribile privilegio di aver visto sei milioni di ombre appoggiarsi alla sua esile figura e trovare un posto quasi impercettibile nel grande libro dei morti di questo mondo. E se Elie Wiesel ha un altro merito è di aver fatto sì che, nella sua opera come più tardi nella mente di coloro che essa avrà saputo ispirare, il ricordo oscuro dell’eccezione che fu la Shoah non escludesse, ma obbligasse, l’ardente solidarietà con tutte le vittime di tutti gli altri genocidi.

Lo ricordo, nel 1979, alla frontiera della Cambogia dove l’incontrai per la prima volta, con il suo ciuffo di capelli, simile a un’ala allora nerissima, che ondeggiava sul suo bel volto emaciato: è la prima persona che ho sentito teorizzare sull’oscura imbecillità dei sostenitori della competizione tra le vittime, pretendendo già che ciascuno scegliesse i propri morti: ebrei o khmer, martiri di un genocidio o di un altro. Lo ricordo, sette anni dopo, a Oslo, dove lo accompagnai quando ricevette il Nobel che tanto aveva desiderato: lo trovo inaspettatamente cupo; inspiegabilmente ansioso; e nel suo sguardo, che a momenti esprimeva gioia, gaiezza, un’umida scintilla verlainiana dell’eterno bambino colmo di intelligenza e malizia, e a momenti l’infinita tristezza di colui che ne ha viste troppe e non si rimetterà mai dal fatto di essere stato testimone di quel che di peggio l’uomo può fare all’uomo, è chiaramente la tristezza a prevalere. Poi con François Mitterand. Il giorno del suo ultimo incontro con la sfinge, il Machiavelli dell’Eliseo.

Le icone parlano alle icone. Il paesano di Sighet con il borghese della Charente. Fra loro, molte conversazioni. Forse si sono voluti bene. In Mitterrand, ha avuto la sensazione di ritrovare, con l’aggiunta del potere, qualcosa della untuosità e del linguaggio dell’altro François, François Mauriac, che lo aveva legittimato e aiutato quand’era tornato dal campo di concentramento e con il quale riteneva di aver lavorato bene, all’epoca, per ridurre il malinteso millenario fra ebrei e cristiani. Ma poi capisce: il Principe «marista» (della congregazione Frères Maristes, ndr ) era andato tranquillamente a giocare a golf il giorno in cui il suo soldato Pierre Bérégovoy si suicidava; e fino all’ultimo giorno aveva continuato a vedere e a proteggere il denunciatore di ebrei René Bousquet. Allora si chiede: sono stato tradito? Ingannato? Imbrogliato? Di chi ero lo zimbello? Conosceva gli ebrei di corte.

Eccolo consacrato ebreo ufficiale. Perché non aver ricordato la massima raggelante del Trattato dei Padri: «Non farti conoscere dal potere»? Loro sapevano che essere ebreo ufficiale è, sempre, una lusinga e una trappola. La grandezza di Elie Wiesel, in verità, fu di essere rimasto fino all’ultimo, e in ogni circostanza, uno dei piccoli ebrei che egli riteneva fossero la corona dell’umanità. La sua immensa grandezza, la sua nobiltà furono di non aver mai dimenticato la lezione del Rabbi di Wishnitz che gli intimava, anche con il bell’abito del letterato, di non dimenticare mai che era responsabile dei suoi fratelli dal caftano e il copricapo di pelo che volevano farsi belli come i nobili polacchi che li «pogromizzavano».

Credo che non abbia passato un solo giorno della sua lunga vita di grande intellettuale celebre e celebrato, ricoperto di onori e fasti, consultato ogni anno dai Clinton, Bush e Obama, senza fermarsi, almeno un’ora, davanti a una pagina del Talmud o del Zohar, sapendo che all’inizio non vi avrebbe capito nulla, vi avrebbe consumato le proprie forze, dello spirito e del corpo, ma che quello era lo sforzo necessario per avere l’unica vera celebrazione. Così accadeva a Sighet quando si credeva che un giorno sarebbe giunto il Messia. Così accade oggi quando si sente dire che né la Cambogia, né il Darfur, né i massacri in Siria, né l’urgenza di stanare la bestia che dorme nell’uomo, distolgono dal sacro compito di salvare il possibile di memoria, di senso e, quindi, di speranza. È la lezione di Elie Wiesel che, partito dal Paese degli uomini e dei libri per rivolgersi ai suoi fratelli in attesa di poter emigrare a Manhattan e a Parigi, è diventato una delle coscienze di tempi tormentati, più che mai, dal crimine e dall’oblio.

(Traduzione di Daniela Maggioni)

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