Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/07/2016, a pag. 1, con il titolo "La jihad mutante del Califfo", l'analisi di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, a pag. 1, con il titolo "Gli occhi chiusi", l'analisi di Pierluigi Battista.
Terrorismo islamico
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "La jihad mutante del Califfo"
Maurizio Molinari
La strage di italiani a Dacca è parte dell’offensiva di attentati in più continenti che fa emergere Abu Muhammed al-Adnani nel ruolo di sanguinario leader di uno Stato Islamico (Isis) in trasformazione. Nato nella provincia siriana di Idlib fra il 1977 ed il 1978, e cresciuto in quella irachena di Haditha, al-Adnani è considerato il capo delle operazioni militari di Isis in Siria nonché il portavoce e l’ideologo del Califfato proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi il 29 giugno 2014.
Sul capo di al-Adnani pende una taglia di 5 milioni di dollari del Pentagono e in più occasioni i droni della coalizione occidentale hanno tentato di eliminarlo. Il 21 maggio è stato lui a pronunciare il discorso che ha delineato il cambiamento di strategia del Califfato: ha invocato attacchi «contro gli infedeli» nel mese di Ramadan e rivolto ai nemici ha affermato «potete anche catturare Sirte, Mosul e Raqqa ma noi torneremo alle origini della nostra Jihad». Ovvero, l’indebolimento territoriale di Isis a causa delle sconfitte subite negli ultimi mesi in Libia, Siria ed Iraq porta i jihadisti a tornare a preferire l’arma degli attentati ovunque possibile.
Entrato nel terzo anno di vita, il Califfato si trasforma: si indeboliscono le fattezze di Stato totalitario e tornano a prevalere le caratteristiche di gruppo terroristico. A prendere sul serio il discorso di al-Adnani è stato John Brennan, direttore della Cia, intervenendo davanti alla commissione Intelligence del Senato di Washington per affermare che «i successi ottenuti contro Isis sul fronte terrestre e finanziario non ne hanno indebolito la capacità di colpire a livello globale» e l’«aumento della pressione militare» contro le rimanenti roccaforti in Medio Oriente e Nordafrica «porterà ad un’intensificazione degli attacchi terroristici». Questo è esattamente quanto avvenuto dall’inizio del corrente mese di Ramadan, considerato il più sacro dai musulmani perché coincide con la rivelazione del Corano e spesso usato in passato da organizzazioni e gruppi jihadisti - come Al Qaeda in Iraq di Abu Musab al-Zarqawi - per mettere a segno sanguinosi attacchi. Si è trattato di azioni di tipo diverso benché tutte portano al Califfato: ad Orlando, Florida, Omar Mateen ha massacrato 49 persone in un night club proclamandosi «soldato di Isis»; a Les Mureaux, Francia, Larossi Abdallah ha ucciso il vicecapo della polizia; ai confini fra Siria e Giordania i jihadisti hanno lanciato le prime autobomba contro truppe hashemite; in Libano hanno attaccato villaggi cristiani lungo la frontiera; all’aeroporto Atatürk di Istanbul un commando di origine centroasiatica ha ucciso 42 persone e venerdì notte c’è stato l’assalto al ristorante spagnolo di Dacca che ha causato almeno 20 vittime.
Se in Giordania, Libano e Bangladesh Isis ha rivendicato gli attacchi, in Turchia la pista porta nella stessa direzione mentre nel caso di Orlando e Les Mureaux è stata l’emittente «Al Bayan», voce del Califfato, a vantarsi della paternità delle azioni messe a segno da «lupi solitari». D’altra parte lo stesso capo dell’Fbi, James Comey, ha affermato che «Mateen ha subito l’influenza di informazioni digitali» ovvero la propaganda di Isis sul web, a cominciare proprio dal discorso di al-Adnani. Ecco perché il filo che unisce l’attuale offensiva di attacchi è quanto affermato dal leader jihadista siriano sul «Ramadan mese sacro della lotta durante il quale dobbiamo portare ovunque la morte contro gli infedeli». Confermando la capacità dei jihadisti di adattarsi alle mutate situazioni tattiche al fine di continuare comunque a colpire. E rafforzando l’ipotesi che se al-Baghdadi dovesse morire potrebbe essere proprio al-Adnani il suo successore. Ecco perché il brutale massacro di occidentali - italiani inclusi - fra i tavoli dell’Holey Artisan Bakery rivela l’entità di una minaccia globale: leader e miliziani jihadisti in ritirata da Palmira, Ramadi, Fallujah o Sirte non svaniscono nel nulla né si considerano sconfitti, ma vogliono uccidere «infedeli ed apostati» ovunque possono per perseguire il disegno apocalittico della sottomissione dell’intero Pianeta al Califfato.
CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista: "Gli occhi chiusi"
Pierluigi Battista
Piangiamo i nostri morti di Dacca e siamo costretti a ricordare che la guerra dei fanatici jihadisti non finisce mai, non ci dà tregua, si dissemina per il mondo, colpisce con ossessiva caparbietà. Facciamo finta di non vedere. Facciamo finta di non capire. Minimizziamo. Parliamo d’altro. Ma speriamo sempre che la strage di Parigi sia stato solo un brutto incubo. S periamo che a Bruxelles la colpa della carneficina in aeroporto sia delle goffaggini belghe. Che i morti ammazzati di Charlie Hebdo siano stati un brutto episodio ma isolato. Però proprio in questi giorni hanno appena rinnovato minacce apocalittiche contro ciò che resta della redazione di Charlie Hebdo , ma noi releghiamo la ferale notizia in un angolo della nostra percezione delle cose.
Non può essere vero che questa guerra cruenta, bizzarra, incomprensibile abbia preso noi come bersagli. E Dacca, è stata forse un caso, un altro caso? Hanno appena massacrato un po’ di innocenti all’aeroporto di Istanbul. E noi non facciamo fatica a declassare questa tappa ennesima della guerra globale dell’islamismo fanatico e stragista a un episodio di rango per così dire locale. Non preghiamo per loro. C’è voluto Ferzan Ozpetek a richiamare noi europei che parliamo continuamente di Brexit a un minimo di solidarietà, di allarme, di reazione per l’attentato kamikaze che ha sfregiato la Turchia: e Istanbul è pure più vicina di Dacca, è alle porte dell’Europa. A Orlando un’ecatombe in un locale gay della Florida. Abbiamo fatto di tutto per non coglierne la portata mostruosa, come era già accaduto per l’esplosione durante la maratona di Boston.
Abbiamo attribuito tutta la colpa a uno squilibrato. Ne abbiamo ridotto il significato a una questione, pur importantissima per carità, di facilità con cui negli Stati Uniti la follia degli assassini può munirsi di armi pericolosissime. Magari c’è anche questa componente, come escluderla? Ma siamo riluttanti a cogliere il cuore della questione: che nella guerra santa contro il nostro peccaminoso stile di vita, contro il modello culturale blasfemo e diabolico che viene così fanaticamente ripudiato, l’omofobia violenta e senza freni, l’odio per le donne libere (Colonia), il disgusto per gli stessi luoghi della vita quotidiana, del divertimento, dei comportamenti non conformi a un dogma religioso sono non un lato marginale del combattimento fondamentalista, ma una componente essenziale della guerra unilateralmente scatenata.
Prima di Dacca hanno colpito discoteche, night-club, cinema, teatri, ristoranti, stadi, spiagge, mete di vacanza e di turismo, caffè, alberghi. Persino musei, come a Tunisi. Non c’è luogo della Terra e delle metropoli occidentali che non sia potenziale bersaglio di una guerra infinita. Ma noi non vogliamo capirlo. Pensiamo che capirlo ci faccia male, che ci possa costringere a scelte che non vorremmo mai compiere. Dedichiamo solo un fugace pensiero alla lontana Nigeria dove gli assassini di Boko Haram hanno manipolato povere bambine come martiri della fede da far saltare in aria negli attentati suicidi. Pensiamo di potercene disinteressare se nel cuore di Tel Aviv gli attentatori colpiscono bistrot e caffè frequentati dagli studenti. A Hebron hanno appena ammazzato a coltellate una ragazza di 13 anni ma nei media occidentali la notizia è stata in gran parte ignorata. Non vogliamo più sapere cosa ne è stato dell’aereo russo colpito nei cieli dell’Egitto. Dopo Parigi e Bruxelles la diffusione del terrorismo jihadista viene ridotta a faccenda di «lupi solitari».
Le stesse notizie sul fronte bellico vero e proprio, in Siria, in Iraq, nella vicinissima Libia, vengono lette stancamente come un bollettino di una guerra lontana condotta contro l’Isis. Mentre in Pakistan gli attentati non si contano più. In Afghanistan lo stesso. Siamo come rassegnati. O speranzosi che la tempesta si plachi e non arrivi fin qui. Ma poi dobbiamo disperarci perché a Dacca nostri connazionali hanno perso la vita. Ascoltiamo le parole del papa Francesco sulla «Terza guerra mondiale» a bassa intensità, ma senza prenderle alla lettera. Aspettando il prossimo attentato. E di risvegliarci dal sonno degli indifferenti.
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