Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 30/06/2016, a pag. 13, con il titolo "In un anno 14 attentati, ecco perché la Turchia è nel mirino del terrore", il commento di Gian Micalessin; da LIBERO, a pag. 10, con il titolo "L'uomo che uccide la Turchia", il commento di Filippo Facci.
I due commenti che seguono affrontano le responsabiltà e le connessioni con il terrorismo del regime di Erdogan. Ignorarle significa escludere una parte del tutto. Sotto il governo di Erdogan, la Turchia è uscita dal solco della tradizione ispirata a Atatürk, la mancanza di libertà è in crescita, le repressioni dei diritti umani e civili la verifichiamo nelle cronache quotidiane.
Ecco gli articoli:
IL GIORNALE - Gian Micalessin: "In un anno 14 attentati, ecco perché la Turchia è nel mirino del terrore "
Gian Micalessin
Passeggeri lasciano l'aereoporto di Istanbul dopo l'attentato
Quattordici attentati e oltre 280 morti nell'arco di 12 mesi. Basta questo dato per comprendere come la Turchia sia diventata un autentico crogiuolo del terrore. Un crogiuolo dove spesso non è facile distinguere tra i colpi messi a segno dai miliziani curdi del Pkk e quelli rivendicati dallo Stato Islamico. Per capire perché questo paese della Nato, abitato da 70 milioni di musulmani, sia precipitato nelle spire dell'odio bisogna analizzare non tanto le mosse dei potenziali terroristi quanto quelle di Recep Tayyp Erdogan, l'uomo che da 14 anni governa su Ankara e dintorni. Sul fronte curdo Erdogan è accusato d'aver tradito gli accordi di pace avviati nel 2012 e gettati alle ortiche quando le formazioni siriane, alleate del Pkk, hanno incominciato a combattere l'Isis e gli altri gruppi jihadisti vicini ad Ankara.
La questione siriana e l'ambiguo ruolo della Turchia è fondamentale anche per capire il colpo di coda di uno Stato Islamico. Convinto di poter riportare Damasco nell'orbita di una Turchia neo-ottomana, Erdogan cavalca - fin dal 2011 - l'ostilità dell'Occidente nei confronti di Bashar Assad sostenendo i gruppi jihadisti della ribellione siriana. E non si ferma neppure quando si tratta di armare l'Isis o di acquistare il greggio proveniente dai pozzi siriani controllati del Califfato. Il segnale più evidente della prolungata e compiacente copertura offerta ai terroristi dell'Isis è il passaggio dal confine turco-siriano di oltre 5000 jihadisti provenienti dai paesi europei e di altri 30mila partiti da altre regioni del globo. Dal 2011 fino alla prima metà del 2015 quest'autentica internazionale del terrore sfrutta la mancanza di controlli garantita da un apparato di sicurezza evidentemente poco interessato ad arginare la marea jihadista.
L'apatia delle forze di sicurezza di Ankara permette all'Isis di costruire autentici santuari all'interno dei territori turchi e svolgere un'attività di proselitismo che contribuisce alla nascita di un'area grigia composta da decine di migliaia di esponenti radicali pronti a offrire coperture e assistenza ai militanti del Califfato. Non a caso tra il 2014 e il 2015 i quotidiani anti-Erdogan ospitano numerose lettere d'infermiere e medici pronti a denunciare l'assistenza sanitaria offerta dagli ospedali turchi ai militanti dell'Isis feriti in Siria. Ma l'indignazione di tanti cittadini non basta a smuovere Erdogan. La svolta arriva solo dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015. L'ormai manifesta doppiezza turca nei confronti del terrorismo, i bombardamenti delle zone curde spacciati per operazioni contro lo Stato Islamico e la svolta autoritaria di un Erdogan pronto ormai a sbattere in galera giornalisti e dissidenti interni spingono Stati Uniti ed Europa, Francia in testa, ad esercitare pressioni sempre più dure su Ankara.
Quelle pressioni, unite all'isolamento energetico decretato da Mosca e alla crisi economica determinata dall'azzeramento del turismo costringono Erdogan a un brusco dietrofront. L'Isis si ritrova così nel mirino di quelle stesse forze di sicurezza turche attentissime - fino a poche settimane prima - a garantirgli armi, finanziamenti e libertà di movimento. La svolta è decisiva perché - a differenza di quanto successo nell'autunno 2014 a Kobane - le forze dell'Isis in Siria si ritrovano attaccate e vulnerabili anche sul lato del confine turco. Ma è troppo tardi. Per le forze del Califfato ormai profondamente incistate nel territorio e nei settori più estremisti dell'opinione pubblica islamista il dietrofront di Ankara rappresenta un tradimento da punire con il sangue. Un tradimento reso ancor più grave dalla svolta politica di un Erdogan che negli ultimi giorni oltre a riallacciare i rapporti con Israele congelati dal 2010 - non esita scusarsi con Putin per l'abbattimento dell'aereo russo colpito da un missile di Ankara durante i bombardamenti delle posizioni dei ribelli siriani al confine turco. Due mosse troppo recenti per rappresentare la causa ultima di un attentato all'aeroporto che ha richiesto, evidentemente, preparativi assai più lunghi, ma sufficienti per capire che la guerra dell'Isis alla Turchia è solo agli inizi.
LIBERO - Filippo Facci: "L'uomo che uccide la Turchia"
Filippo Facci
Recep Tayyip Erdogan
Chi è Recep Tayyp Erdogan? È vero che non guarda all’eroe nazionale Kemal Ataturk (il padre della Turchia moderna) bensì a Saddam Hussein? La risposta è chissenefrega. In Italia è sempre stato così, e se il nostro giornalismo si accorge solo ora di questo Erdogan è per ragioni abbastanza pietose. A destra, leghisti a parte, c’era Berlusconi che lo adorava e che vedeva tutto in chiave amicale-commerciale: il ventriloquo ministro degli Esteri Franco Frattini, di conseguenza, esaltava le «riforme» dei turchi con articoli sul Corriere della Sera che erano scritti, in realtà, da un collaboratore di questo giornale. E a sinistra? Loro, invece, semplicemente se ne fregavano: comunisti a parte, la linea la dettava Prodi e i giornaloni si regolavano di conseguenza; quando il Capo dello Stato Giorgio Napolitano andò per esempio in Turchia (2009) il suo viaggio fu liquidato solo come un’assenza, un generico «essere all'estero» come se fosse andato a sciare: i pochi articoli che ne davano conto titolavano su presunti riferimenti di Napolitano a riforme italiane (nonostante Stampa e Repubblica avessero mandato degli inviati ad Ankara) e al massimo filtrava la frase «l’ingresso della Turchia come stato membro è un valore aggiunto per l’Europa». Come no.
VERSO ORIENTE Intanto l’Herald Tribune e altri giornali del mondo si occupavano del caso Turchia per davvero, si facevano qualche domanda su Erdogan, analizzavano cioè quei fatti che nessuno aveva interesse a discutere, da noi: per esempio che Ankara, di fatto, guardava sempre di più a Oriente, segnatamente all’Iran e alla Siria. Per esempio che Recep Erdogan, in fin dei conti, regnava incontrastato con un partito che si chiamava «islamico» dopo esser stato condannato e imprigionato (1998) per incitamento all’odio religioso: aveva ripreso i versi di un poeta secondo i quali «le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati». Per esempio che in fin dei conti, nonostante le procedure per l’entrata nella Ue, come da lui auspicato sin dal 2003, quest’uomo di occidentale aveva poco: diceva che uomini e donne non possono ricoprire le stesse posizioni «per natura e per indole», che l’uguaglianza non va bene, sua figlia Summeyye (erede politica) aggiungeva che il compito dell’uomo era «portare il pane a casa e mantenere la moglie e i figli» e sua moglie Emine ribadiva che le turche dovrebbero trarre «ispirazione» dagli harem «che preparavano le donne alla vita».
No, non eravamo ancora alla Turchia che fa il pesce il barile sull’Isis ed esporta armi in Siria: eppure di passaggio, Erdogan, già chiudeva giornali, incarcerava giornalisti e scrittori, censurava internet, nel Paese era tornato il velo per le donne, le minoranze erano discriminate apertamente, in sostanza si stava re-islamizzando il Paese. Chi era Erdogan? Era un mezzo sultano che si stava facendo costruire un palazzo megalomane da 800 milioni di dollari (cercatelo su internet, roba da Mille e una notte) e che però, nell’aprile 2013, fece reprimere col pugno di ferro le proteste anti-governative che c’erano in varie città turche (con morti e feriti favoriti dalla repressione della polizia) e che di fronte alle legittime lagnanze della Comunità europea, poi, disse che non gliene fregava niente. Quando pure Bruxelles riconobbe per l’ennesima volta il genocidio turco degli armeni, Erdogan rispose testualmente che «qualunque decisione presa dal Parlamento europeo mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro». Chiaro.
Erdogan era l’uomo dell’articolo 301 del Codice Penale, che vietava genericamente di offendere l’identità turca; era lo stesso signore che il 14 aprile 2006 aveva ordinato che gli alunni turchi scrivessero un tema sulle false affermazioni di genocidio riguardanti gli armeni, e che poi indisse un concorso sul tema «la ribellione armena durante la prima guerra mondiale». Erdogan è colui che fece cambiare i nomi degli animali che facevano riferimento all’Armenia: la pecora Ovis Armeniana diventava Ovis Anatolicus, il cervo Capreolus Armenus diventava Capreolus Cuprelus. È quello che nell’aprile dell’anno scorso bloccò l’accesso a Twitter, Facebook e YouTube (più altri siti) in quanto, a suo dire, facevano propaganda al terrorismo, questo dopo aver già bloccato la diffusione online di alcune denunce di corruzione contro il governo (marzo 2014) e precisamente dopo la pubblicazione di telefonate tra Erdogan e il figlio Bilal. Nello stesso periodo aveva attaccato i social network: «Siamo determinati a non lasciare che il popolo turco venga sacrificato a YouTube e Facebook». Ma gli esempi sarebbero ben di più, visto che la Turchia è il Paese che ha presentato più richieste di rimozione di siti web in assoluto. La moderna Turchia si stava insomma occupando delle nuove libertà: di quelle vecchie si era già occupata da un pezzo. E che diceva l’Italia, intanto? Noi, cioè il premier Monti, auspicavamo pubblicamente l’ingresso turco nella Ue, punto e basta. Questo nel 2012. Oggi, nel 2016, registriamo una quarantina di morti per un ordinario attentato in un ordinario paese islamico.
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