Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 23/06/2016, a pag.30, con il titolo "Quella comunità ebraica protetta dagli ayatollah", il servizio di Sebastiano Caputo.
Sabastiano Caputo
E' la prima volta che leggiamo il nome di Sebastiano Caputo, autore di un articolo che più ignorante non potrebbe essere. Ignorante nel senso etimologico della parola: Caputo è andato in Iran senza avere la minima informazione sugli ebrei persiani, due concetti sulle loro origini millenarie e stop. Tutto il resto avrebbe potuto scriverlo senza andarci, l'intervista che qui leggerete è identica a tutte le precedenti, qui va tutto bene, la nostra libertà è totale e via con tutte le altre minchionate, il prezzo che gli ebrei rimasti sanno di dover pagare per poter continuare a vivere in un regime che fin dall'arrivo di Khomeini lasciava una sola alternativa: ubbidire al nuovo regime, raccontare che tutto va bene, altrimenti andarsene, come hanno fatto tutti gli ebrei che hanno abbandonato il paese. Quelli che sono rimasti, avranno avuto la loro convenienza - molti di meno della cifra citata dal Caputo - la dignità ha un prezzo che si può decidere di non pagare, nulla da obiettare. Ma venirci a raccontare le tiritere del Regime, che eliminò fisicamente i dirigenti delle comunità ebraiche per far capire il cambiamento, è più che ignoranza.
1979, dimostrazione pro-khomeini a Teheran
Ecco il pezzo:
In Persia esiste un anti-occidentalismo di Stato stampato sugli edifici di Teheran, i disegni sui muri che deridono il "Grande" (Stati Uniti) e il "Piccolo Satana" (Israele) sono ovunque, eppure chi lo avrebbe mai detto che escludendo la terra di Israele, quella iraniana rappresenta ancora oggi la comunità ebraica più numerosa dell'intero Medio Oriente. Le origini sono antichissime, si dice che gli ebrei vivano qui da più di 2500 anni, da quando giunsero in Persia liberati da Ciro il Grande, dopo la schiavitù di Babilonia.
Nel 2016 se ne contano 30mila, di cui il 50 per cento vive a Teheran, la capitale dalle 11 sinagoghe che ospitano persino le scuole ebraiche. Gli altri invece sono dislocati nelle grandi città come Isfahan e Shiraz, ma anche in alcune più piccole come Yazd, Sa-nandaj e Hamedan, dove si trova la tomba dei biblici Ester e Mordecai, il luogo di pellegrinaggio più importante per gli ebrei iraniani.
Ai tempi dello Scià erano circa 100mila ebrei, poi con la Rivoluzione Islamica del 1979 molti sono scappati non sapendo quali diritti gli sarebbero stati concessi. E invece all'indomani dei sollevamenti popolari, l'Ayatollah Khomeini li dichiarb, al pari degli altri gruppi religiosi, una minoranza protetta e libera di pregare il suo Dio. La comunità ebraica in Iran dunque è stata riconosciuta ufficialmente da parte del governo e, come per cristiani e zoroastriani, gli è stato assegnato un seggio nel Parlamento, o Majlis. Abbiamo incontrato Samiak Moreh Sedgh, unico deputato di confessione ebraica, eletto per la terza volta consecutiva, all'interno dell'ospedale Dr. Sapir, il più grande dell'Iran, di cui è direttore generale. Siamo entrati in questa struttura gigantesca al centro di Teheran che ruba l'attenzione dei passanti per la sua grande insegna con la scritta in alfabeto ebraico. La maggior parte dei suoi pazienti e del personale sono musulmani. «Benvenuti in Iran» afferma a gran voce Moreh Sedgh aprendoci la porta del suo ufficio, «ebrei e sciiti difendono insieme la vita, non vi sembrerà vero!», continua. Ci offre una sigaretta e un caffè prima di conversare assieme: «Vedete questa parete? fotografatela e fatela vedere dalle vostre parti». Di fianco alla bandiera iraniana posta sopra un'asta, due ritratti degli Ayatollah Khomeini e Khamenei sovrastano un quadro che raffigura Mosé e Aronne. Tutto intorno, tra le mensole, si intravedono oggetti legati alla cultura ebraica: una targa con il candelabro a sette bracci, qualche kippah, la Torah. Samiak Moreh Sedgh è un uomo sulla sessantina, molto carismatico e autoironico, dalle occhiaie sul viso traspare una vita dedita al lavoro. Il suo cellulare squilla costantemente. «Quattro giorni alla settimana mi trovate qui all'ospedale, gli altri sono al Majlis, ma adesso cari amici italiani, sono a vostra disposizione». Il tema centrale è ovviamente quello dell'integrazione. «Gli ebrei in Iran sono liberi di pregare e vivere dove vogliono, pensate che durante l'Olocausto molti ebrei sono venuti qui per mettersi al riparo dalle persecuzioni. Oggi gli unici problemi che abbiamo sono gli stessi degli iraniani di confessione islamica: il lavoro e la crisi economica mondiale. Siamo una componente attiva di questa nazione, qui non esistono ghetti, siamo mescolati con le altre etnie. Abbiamo un passato comune, prima della Rivoluzione del 1979 molti ebrei che erano contro il regime dello Scià furono sbattuti in carcere, e molti di noi ebrei sono andati a combattere sul fronte nella guerra contro l'Iraq per difendere il Paese. Noi ebrei siamo pronti a difendere di nuovo l'Iran, anche in futuro, se qualcuno vorrà attaccarlo». Gli domandiamo perché la comunità ebraica viene ignorata dal resto del mondo e come viene considerata dagli ebrei che vivono fuori dall'Iran. «Siamo ebrei, ma pensiamo in persiano, apparteniamo alla nazione iraniana. Per questo siamo diversi dalla maggioranza degli ebrei nel mondo, eppure noi ebrei iraniani, siamo riusciti a convivere per secoli con i musulmani, ci rispettiamo da sempre». E allora come conciliare le posizioni antisioniste degli Ayatollah con la religione? «La nostra posizione è quella del governo iraniano, il conflitto mediorientale non può essere risolto se non si rispetta l'autodeterminazione dei popoli, non si può parlare di pace - afferma Moreh Sedgh - fin quando non verranno concessi i diritti primordiali al popolo palestinese».
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