Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 08/06/2016, a pag. 19, con il titolo "Bruciate in gabbia dall'Is 19 yazide", la cronaca di Renzo Guolo.
Finalmente anche La Repubblica e Renzo Guolo si accorgono dello scontro di civiltà in corso tra mondo islamico e Occidente. Era tempo, dopo anni di articoli concilianti dei confronti dell'islam.
Rimandiamo all'articolo di oggi di Fiamma Nirenstein di oggi sulle 19 donne bruciate dai terroristi islamici: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=253&sez=120&id=62663
Ecco l'articolo:
Renzo Guolo
UNA notizia terribile dal regno scuro dell’Is, da verificare con cura nei tempi della psycowar e della guerra di propaganda. Notizia diffusa, per ora, solo da un’agenzia curdo-irachena che dice di averla appresa da attivisti dei diritti umani e testimoni: dunque da una fonte che ha un preciso interesse nel farla circolare. Una precauzione essenziale in uno scenario nel quale persino l’Is, per fini di propaganda interna e per alimentare il mito della sua ferocia con il Nemico ha interesse a far girare notizie che diffondono il terrore e legittimano, dal punto di vista dell’ortodossia jihadista, le sue azioni “esemplari”. A Mosul, la capitale irachena del Califfato autoproclamato, 19 ragazze appartenenti alla storica minoranza religiosa yazida, sarebbero state chiuse in gabbie di ferro e date alle fiamme davanti a centinaia di persone. Una pedagogia pubblica dell’orrore che i miliziani in nero avevano già praticato quando avevano arso vivo un pilota giordano abbattuto nei cieli di Raqqa.
Le ragazze sarebbero state “giustiziate” per aver rifiutato di divenire spose forzate, e dunque anche schiave sessuali, dei miliziani jihadisti. Le sfortunate erano parte del vasto gruppo di donne yazide divenute “bottino di guerra” dopo la conquista dell’area di Sinjar, nel nordovest dell’Iraq. Quello della soddisfazione dei bisogni sessuali è un problema non secondario per l’Is. I mujahidin affluiti in consistente numero nelle aree controllate del Califfato non riescono a soddisfarli attraverso il matrimonio ordinario. La politica dei matrimoni in loco, tipica dei gruppi jihadisti, ha meno probabilità di riuscita in contesti urbani e meno tradizionali. Siria e Iraq non sono l’Afghanistan dei Taleban.
Per quanto le “sorelle” giunte volontariamente siano numerose, circa un decimo solo tra i foreign fighters occidentali, le cifre non sono tali da consentire quella “pace sessuale” che consente di evitare scontri tra combattenti in una realtà che, volendo attenersi all’ortodossia religiosa, consente rapporti leciti solo con donne sposate. Il matrimonio con una schiava è religiosamente permesso in stato di necessità. Ma gli islamisti radicali interpretano in senso letterale anche altri versetti della sura coranica che lo consente: quelli in cui si ricorda come Dio farà entrare in un cerchio di fuoco, nel quale resterà in eterno, chi si ribella alla sua assoluta volontà. È questa interpretazione che dilata sino al limite estremo la punizione della disubbidienza, che ha condotto al terribile rogo di Mosul.
Nella tassonomia del Nemico del radicalismo islamista la messa a morte delle schiave è legittimata dal rifiuto del matrimonio: anche quello provvisorio, pratica rigettata dal mondo sunnita ma riattualizzata dal quel diritto dinamico jihadista che scardina norme consolidate invocando la “giurisprudenza della necessità” prodotta dalla comunità combattente. Con quel rifiuto le donne yazide restano parte di un gruppo che non appartiene alla Gente del Libro, come i cristiani, che possono scegliere tra conversione obbligata o pagamento della jizya, la tassa di capitazione. Un rifiuto che, nel preferire una morte ingiusta a una vita irrimediabilmente offesa, diventa, questo si, consapevole e autentico martirio.
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