Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 06/06/2016, a pag. 35, con il titolo "Il grande errore laico dei padri fondatori", il commento di Giancarlo Bosetti.
L'articolo di Giancarlo Bosetti è fuorviante/disinformante. Bosetti è direttore di Reset, tra i suoi libri ricordiamo "Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio", un attacco a Oriana Fallaci.
Scrivendo di David Ben Gurion, Bosetti ignora che il grande statista considerava la religiosità ebraica l'autentico collante dell'ebraismo, che ha mantenuto unito il popolo ebraico dopo la distruzione di Israele 2000 anni fa. IAvrebbe garantito l'unità anche nel nuovo stato, con il ritorno degli ebrei provenienti da una moltitudine di stati. Per questo si schierò da subito a favore di norme, come la limitazione drastica dei servizi pubblici nel giorno del sabato, che tendevano a conservare la prassi ebraica.
Ma l'Israele che contribuì a fondare era uno stato laico, come dimostra il voto ai due partiti religiosi sin dalla prima Knesset del 1948.
In Israele, la somma dei consensi che i due partiti religiosi ottengono oscilla dal 1948 ad oggi tra 15 e 20% (attualmente questa percentuale è addirittura inferiore: 11%, ovvero 13 parlamentari su 120). Perciò è falso affermare che il peso politico dei partiti religiosi sia crescente: è costante nel tempo.
La descrizione di Israele come un Paese ostaggio dei partiti religiosi "estremisti", però, è funzionale alla demonizzazione dello Stato ebraico. In questa direzione va l'articolo di Bosetti.
Una recensione - per quanto riguarda Israele - sbagliata a un libro comunque interessante.
Ecco l'articolo:
Giancarlo Bosetti
David Ben Gurion
David Ben Gurion, il fondatore e primo capo di governo di Israele era un convinto sostenitore dell’“ottimismo laico”, apparteneva cioè al novero molto diffuso dei politici e degli intellettuali che nel secolo scorso ritenevano la religione una forma di cultura tradizionale destinata a lasciare il passo alla modernizzazione dei costumi e alla razionalità scientifica, cose che il nuovo stato avrebbe incoraggiato. Da primo ministro concesse facilmente la esenzione dalla leva militare ai giovani delle scuole ebraiche “yeshiva”, perché era convinto che in pochi anni le redingote nere degli haredi sarebbero rimaste poco più che un ricordo, o una piccola enclave, come negli Stati Uniti quella degli Amish o dei Mennoniti. Raramente previsione è stata più sbagliata. E raramente un errore è stato così diffuso tra le classi dirigenti di tanta parte del mondo.
Israele non è in questo per niente una eccezione. Gli sviluppi degli ultimi vent’anni del Novecento e l’avvio del nuovo secolo hanno proposto il revival e la radicalizzazione delle religioni in un modo che ha spinto Michael Walzer a interrogarsi su tutte le possibili radici del fenomeno. In The Paradox of Liberation, Secular Revolutions and Religious Counterrevolutions, (Yale University Press) il filosofo di Princeton ritrova il medesimo errore in tre casi esemplari (insieme a Israele, India e Algeria) che esamina più in profondità, ma che presentano somiglianze con tanti altri (dall’Egitto di Nasser alla Turchia di Ataturk, passando per la Siria del Baath): élite secolari (autoritarie o democratiche) ispirate dalla stessa fiducia modernista e decise a utilizzare lo Stato come strumento della secolarizzazione. Ebbene nei tre casi esaminati il fondamentalismo religioso ha oggi un potere che avrebbe sconcertato non solo Ben Gurion, ma anche Jawaharlal Nehru, alla guida dell’India indipendente nel 1947, e Ahmed Ben Bella, primo presidente della Algeria liberata nel 1962.
La copertina
In Israele la forza politica dell’estremismo religioso condiziona ora tutta la vita politica; in India il partito confessionale induista è al governo; in Algeria una dittatura militare ha messo fine alla guerra civile contro le milizie islamiche. Michael Walzer è tentato da una teoria generale — gli errori di quelle élite e il distacco giacobino dalla cultura del loro popolo sono tra le cause del fanatismo religioso oggi avanzante — ma tiene sotto controllo la tentazione, perché, dice di sé stesso, con esagerata modestia «ho sempre avuto difficoltà a sostenere un argomento astratto per più di poche frasi». E dunque si vuole attenere ai fatti. Ed eccoli.
L’India: Nehru teorizzava la battaglia contro la religione perché essa insegna «una filosofia della sottomissione… all’ordine sociale prevalente e a tutto quello che c’è», comprese le caste e il comando degli inglesi. Qui fuori posto è Gandhi. Questi condusse la sua battaglia contro la discriminazione degli Intoccabili ( Dalit), ma preoccupandosi di non rompere con la spiritualità induista e di integrarla in una visione pluralista con il cristianesimo e con l’islam. Ma determinante fu il fatto che il Mahatma concesse la successione a Nehru. E il leader Ambedkar ( Dalit), altro padre della moderna India, accentuò ulteriormente il tratto politico antireligioso.
L’Algeria: qui Frantz Fanon, il filosofo terzomondista, portavoce del Fronte di Liberazione parlava di «un nuovo tipo di algerino ». Il gruppo dirigente era composto per lo più da laici, marxisti o socialisti, anche se il manifesto iniziale del movimento faceva riferimento ai principi dell’islam. Ben Bella, lettore di Sartre, Lenin e Malraux, parlava di socialismo islamico, ma i suoi critici vedevano in lui molto socialismo e poco islam.
Israele: del credo secolarizzante e modernizzante di Ben Gurion abbiamo detto. Ma lo stesso fondatore del sionismo Theodor Herzl, aveva una cultura tipicamente nazionalista in tensione con la religione ebraica in quanto tale. E la stessa cosa, paradosso nel paradosso, si può dire per Arafat, il leader dell’Olp: era un marxista e un nazionalista e si ispirava molto più a Fanon e al Fnl algerino che al Corano. E anche in Palestina il radicalismo di Hamas scala il potere negli anni Ottanta. L’analisi di Walzer scopre con la consueta sorprendente semplicità di linguaggio fatti e idee che documentano come le rivoluzioni che hanno fondato nuovi Stati hanno visto condottieri in conflitto culturale con le genti che hanno guidato (cosa vera già a cominciare da Mosè, educato alla corte del faraone). Un distacco che non era lontano dal disprezzo (Nehru per l’induismo, per esempio). La teoria da cui il filosofo ebreo-americano è tentato, e che lascia al lettore il desiderio di formulare, è che il mondo contemporaneo sta pagando il prezzo di quell’errore.
Dove i “padri fondatori” di quei paesi sbagliarono gravemente non fu nel correggere i vizi della tradizione religiosa (le caste, la sottomissione della donna, il rifiuto della modernità), ma nel modo in cui lo fecero. Invece di impegnarsi e sfidare queste tradizioni a trarre dal loro interno le ragioni per superare pratiche e idee contraddittorie o aberranti, usarono un metodo “archimedeo” (datemi una leva…), esterno. In questo modo quelle élite non conquistarono una vera egemonia, “imposero” una cultura, ma non negoziarono con essa. E hanno fallito, non sapendo riprodurre la loro modernità nelle nuove generazioni. E anche nelle loro promesse di eguaglianza e pluralismo offerte allora, agli arabi in Israele, ai musulmani in India, ai berberi in Algeria.
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