Erdogan fa oggi strage di curdi, 101 anni fa i turchi massacravano un milione e mezzo di armeni. Un paese che non ha alcuna possibilità che ne permetta l'entrata in Europa. Sarà bene ricordarlo agli 'esperti' che ogni tanto esprimono i loro 'competenti' giudizi sui paesi islamici.
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/06/2016, l'articolo di Lorenzo Cremonesi, dalla REPUBBLICA, l'intervista di Arianna Finos al regista armeno-canadese Atom Egoyan.
Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi: " Uno squarcio dalle zone off limits"
Lorenzo Cremonesi
Carri armati schierati alle entrate dei villaggi e sulle alture dominanti. Ogni tanto uno sparo, o un rombo più cupo, con rumori di macerie smosse e raffiche isolate. Ma a fare più impressione sono le voci umane, ovattate, lontane, brusii, eppure ben distinguibili: il grido di un bambino, acuti di donne, urla nel cielo. Era quello che si poteva osservare e udire già a fine dicembre scorso dalle regioni siriane controllate dalle milizie curde confinanti con la Turchia sudorientale. «E un massacro. L'esercito turco impone il coprifuoco e poi attacca, ricorre alla forza bruta in modo indiscriminato, spara sui civili, uccide e non permette l'arrivo delle ambulanze, ci sono cadaveri nelle cantine», gridavano i pochi profughi che riuscivano a fuggire da Cizre, Nusaybin, Mardin, Ceylanpinar, ma anche dalla città di Batman e persino da Diyarbakir, più all'interno, considerata la «capitale» dei curdi in Turchia. Ieri le autorità turche hanno annunciato la fine delle operazioni anti terrorismo a Sirnak e Nusaybin. Ogni venerdì pomeriggio i responsabili delle Ypg e Ypj, rispettivamente le formazioni armate maschili e femminili dei curdi siriani si coordinavano con i «fratelli e sorelle» del Pkk (l'organizzazione paramilitare dei curdi in Turchia accusata di terrorismo da Ankara e parte della comunità internazionale) per inscenare manifestazioni di protesta lungo il confine, proprio di fronte ai fili spinati e i campi minati. Ma poteva essere pericoloso. Capitava che i cecchini turchi girassero i fucili ad alta precisione e sparassero diretti nella folla, causando vittime. Allora l'attenzione internazionale era però soprattutto concentrata sulla guerra contro Isis. La repressione turca contro la minoranza curda passava come l'ennesima ondata di violenze locali, l'ultima di una lunga serie. Oggi la situazione è diversa. Sono proprio le testimonianze di pochi coraggiosi come Faysal Sariyildiz, oltre ad attivisti locali per i diritti umani e uno sparuto gruppo di fotografi e giornalisti ad enfatizzare un quadro estremamente grave. Recep Tayyip Erdogan ha scelto la guerra aperta contro i curdi. In pochi mesi il presidente sempre più sultano è tornato allo scontro frontale in risposta al terrorismo degli estremisti curdi, i quali a loro volta reagiscono con nuovi attentati, provocando una catena di violenze infinite. E il collasso della parentesi del dialogo: quello che dalla metà del 2012 al giugno dell'anno scorso aveva visto negoziati diretti addirittura tra Erdogan e Abdullah Ocalan, il leader indiscusso del Pkk chiuso nelle carceri turche dal 1999. Ormai quel cessate il fuoco è morto e sepolto. In Turchia si è tornati ai periodi peggiori della lunga guerra tra Stato e Pkk, che dal colpo di Stato militare nel 1980 a cinque anni fa aveva provocato più di 40.000 morti, la distruzione di almeno 3.000 tra villaggi e cittadine, oltre alla metodica persecuzione culturale e linguistica dell'identità curda. Una minoranza controversa, in dubbio soprattutto dopo lo smantellamento dell'Impero Ottomano, la nascita dello Stato moderno nel 1923 e l'esaltazione del nazionalismo kemalista assolutamente determinato ad enfatizzare l'omogeneità del Paese contro ogni forza centrifuga. Risulta tabù persino il loro numero. Quanti sono? Oltre il 3096 della popolazione, come sostengono loro; o meno del 1o96, come dice il governo? II problema maggiore nel conoscere, approfondire e diffondere la dimensione della guerra anti curda è ora costituito dalla censura contro giornalisti, blogger e chiunque provi a recarsi sui posti. Erdogan è impegnato in prima persona. «Qui è peggio di Kobane», grida la gente di Cizre. Quasi 135.000 persone sotto coprifuoco duro da metà dicembre, come del resto lo sono gli abitanti di Diyarbakir e un numero enorme di nuclei urbani minori sparsi sino sulle montagne al confine con il Nord Iraq. Ankara denuncia che centinaia di suoi soldati sono stati uccisi e proclama l'eliminazione di 600 «terroristi». I curdi parlano di forse 2.000 morti tra la loro gente. Ma verificare questi numeri resta estremamente difficile. Le zone sotto coprifuoco sono bloccate. I giornalisti locali vengono arrestati se provano a parlarne. Quelli stranieri vengono espulsi. Visti negati, uffici perquisiti e chiusi: per non avere guai molti tra la stampa estera in Turchia evitano di recarsi nelle zone difficili. Sembra l'Iraq ai tempi di Saddam. Tanti tra i quasi 2.000 docenti turchi che pochi mesi fa hanno firmato un appello pubblico per porre fine alla repressione sono stati licenziati o restano sotto inchiesta. Diversi fotografi che hanno provato a raggiungere quelle regioni sono stati minacciati, gli apparecchi requisiti. Agli aeroporti gli agenti possono controllare persino computer e cellulari per verificare che non vi siano video o immagini «vietate». Pochi giorni fa una docente europea che insegna ad Ankara raccontava che le autorità chiedono «discrezione» e «autocensura». Chiunque tra gli stranieri parli pubblicamente della questione curda rischia il posto e non poter più lavorare nel Paese.
La Repubblica-Arianna Finos:" Il coraggio di Berlino aiuta a cancellare l'oblio del mio popolo", intervista con Atom Egoyan, regista armeno-canadese, il cui ultimo film "Remember" èstato recensito su IC, al link: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=4&sez=120&id=61305
Arianna Finos Atom Egoyan
"Dopo la condanna tedesca il governo turco non potrà continuare a negare il genocidio armeno. Perciò aspetto con ansia il prossimo passo". Il regista Atom Egoyan, canadese di origine armena, si batte da sempre per mantenere viva la memoria dell'eccidio, che ha anche raccontato nel pluripremiato Ararat. Cosa pensa della decisione del Bundestag? «La Germania ha dato prova di grande autorità morale, con un altro esempio straordinario di come ha saputo riconciliarsi con un capitolo oscuro del proprio passato. È stata alleata dell'Impero Ottomano e c'è una forte evidenza della sua consapevolezza, della complicità nel Genocidio Armeno. Che fu una sorta di prova generale di Olocausto: i tedeschi impararono dai turchi come sotto la copertura della guerra si potesse perpetrare un crimine come quello». Perché la decisione è arrivata proprio ora? «Non l'avrei immaginato, infatti. Ho letto libri, visto documentari tedeschi, so che nel paese si discuteva. Ma è stato molto coraggioso farlo in un momento tanto delicato, e senza trarne vantaggi, anzi. La Germania ha bisogno più che mai, con l'emergenza immigrazione, di avere un buon rapporto con la Turchia. Ma ha vinto il desiderio morale di riconoscere i propri errori». Che significa per gli armeni, per lei? «E un grande momento. Anche se non sentiamo più, che il nostro è stato un genocidio dimenticato, dopo il riconoscimento dello scorso anno e la dichiarazione di papa Francesco. Resta la tristezza per tutti gli armeni morti pensando che il loro dramma era stato negato e dimenticato. In troppi hanno creduto di morire sepolti nell'oblio». La sua vita e il suo cinema sono influenzati dal trauma del genocidio. «Aver subito uno sterminio di massa è qualcosa che ti accompagna per sempre. Un trauma che, ancor più se negato, si tramanda attraverso le generazioni. Ma se siamo arrivati al traguardo di oggi è anche grazie all'impegno di intellettuali e artisti armeni che hanno tenuto viva la memoria anche quando il mondo sembrava indifferente. Non c'è un altro evento di questa portata che sia ancora negato: l'Unione sovietica ha ammesso i crimini di Stalin, i giapponesi affrontano il massacro di Nanchino. La dedsione tedesca consegna una lezione fondamentale». Quale? «Che anche se chi ha perpetrato un crimine continua a negarlo, esiste la possibilità di un riconoscimento internazionale. E che se si insiste nel rifiutare la menzogna, le cose possono cambiare. Oggi viviamo in una comunità globale in cui ciascuno è responsabile anche delle azioni, e trasgressioni, degli altri. I miei film hanno sempre affrontato il tema della verità: bisogna fare i conti con il passato, anche il più crudele. Nascondendolo, è la nostra umanità a venire distrutta». II governo turco ha reagito con durezza. «Era prevedibile. Non si vuole credere di essere stati capaci di tali orrori. Ma è assurdo continuare a dipingersi come vittime delle menzogne dell'Occidente. Va anche detto con chiarezza che ogni popolo si può rivelare capace di azioni come queste, tutti dobbiamo restare in guardia. Per anni noi canadesi abbiamo creduto di essere stati più umani e giusti degli Usa verso i nativi. Poi abbiamo scoperto che non era così, e abbiamo affrontato le conseguenze di questa terribile verità». In Turchia qualcosa sta cambiando... «Ci sono associazioni, ma anche individui coraggiosi che non vogliono più chiudere gli occhi. La scorsa estate ero in Turchia e sono rimasto impressionato dal cambiamento: fino a dieci anni fa la questione non sarebbe stata nemmeno affrontabile». Con chi avrebbe voluto condividere questo giorno? «Con mia nonna. È stata un'orfana del genocidio. La canzone principale del film Ararat si chiama Yeraz, "sogno" ed era dedicata a lei. Volevo che lei, ovunque fosse, potesse vedere dove siamo arrivati oggi. Da ragazzina, dopo il "grande trauma", non sapeva nemmeno dove fosse nata e chi fossero i suoi genitori. Ecco, mi piacerebbe che ora sapesse che la sua storia è ancora viva».
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