Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/05/2016, a pag. 3, l'editoriale "Non c'è alternativa a Guantanamo".
Cosa ne facciamo dei prigionieri dello Stato islamico? Finora la guerra al Califfato, fatta contro i combattenti più invasati, addestrati al martirio, ha esposto la coalizione in misura minima al dilemma della detenzione. Ora, come raccontava ieri il New York Times, la natura del conflitto sta cambiando, le truppe muovono offensive più vaste nelle grandi aree urbane e incontrano anche nemici meno motivati. E’ possibile, in un contesto del genere, che schiere anche numerose di nemici si arrendano, e l’Amministrazione Obama si sta interrogando sulla gestione dell’eventualità. Le domande sono molte. Chi prende in carico i prigionieri? Chi gestisce la detenzione? Chi esegue gli interrogatori? Dove? Quanto possono durare? Una volta conclusi, cosa succede ai prigionieri?
Lasciare che della cosa si occupino gli alleati è una soluzione piena di limiti. Il rischio è che finiscano in mani peggiori di quelle americane, oppure che non sopravvivano nemmeno fino a una cella, fatti sparire per evitare un problema complicato da gestire. Ma se li prendesse l’America, dove li metterebbe? Le forze militari americane in Iraq fanno sapere di “non essere attrezzate per la detenzione”. La Casa Bianca ha già affrontato questi problemi complessi in passato, trovando una soluzione imperfetta ma servibile, il carcere speciale di Guantanamo, aperto per le necessità imposte da una guerra inedita, non per placare i pruriti di Cheney. Obama, che ha il potere di emozionare il pubblico ma non di stravolgere la realtà, ci si è arrovellato, ma non ha trovato il modo di chiuderlo. Il dilemma sui prigionieri dello Stato islamico gli ricorderà perché.
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