Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 11/05/2016, a pag. 2, con il titolo "Alle radici dell'impossibilità dell'islam di criticare l'islam. Parla al Azm", l'analisi di Ermes Antonucci.
Ermes Antonucci
Sadik al Azm
Roma. Era il 1969 quando Sadik al Azm, allora giovane studente siriano a Beirut, decise di pubblicare una raccolta degli articoli da lui scritti in quegli anni, in cui esaminava in maniera critica le contraddizioni e l’arretratezza del credo islamico, sottolineandone gli insuperabili contrasti con il pensiero razionale, scientifico, moderno, occidentale. L’opera, intitolata “Critica del pensiero religioso”, scatenò nel mondo arabo il più sensazionale scandalo letterario della seconda metà del Novecento, mostrando, per la prima volta, anche i devastanti effetti dell’intolleranza islamica verso ogni forma di “reinterpretazione critica e aggiornamento della fede”.
La prima edizione del volume andò subito esaurita, ma le copie rimanenti furono confiscate dalle autorità libanesi su ordine del gran mufti di Beirut che condannò al Azm per blasfemia, apostasia e ateismo, spingendo gli imam a denunciare l’autore e il libro nei loro sermoni del venerdì. Dopo aver passato alcuni giorni in carcere, tra continue minacce di morte, al Azm e l’editore furono rinviati a processo con l’accusa di “incitamento al conflitto confessionale”, per poi essere scagionati dalla corte. Il clima d’odio spinse però il filosofo di origine siriana a fuggire, e a trovare patria prima negli Stati Uniti e oggi in Germania. A più di 45 anni di distanza, l’interesse occidentale per l’opera di al Azm – che resta bandita in ogni stato arabo, ad eccezione del Libano – torna a risvegliarsi, grazie alla pubblicazione del volume in lingua inglese nel 2015, e alla traduzione uscita in italiano a cura della Luiss University Press, con il titolo “La tragedia del diavolo”.
Ad accogliere Sadik al Azm, ieri nell’ateneo romano della Confindustria, sono stati tra gli altri il filosofo Sebastiano Maffettone, lo storico Giovanni Orsina e il giudice della Corte costituzionale Giuliano Amato. Al Azm ha ricordato di essere stato tra i primi a conoscere sulla propria pelle gli effetti dell’intolleranza islamica nei confronti della libertà di pensiero, poi dispiegatasi in tutta la sua violenza nella fatwa del 1988 contro Salman Rushdie e i suoi “Versi satanici”. Da allora, le censure e le persecuzioni in nome di Allah si sono moltiplicate, fino all’assalto dello scorso anno alla redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo: “La situazione è rimasta la stessa, e in alcuni casi è anche peggiorata – dice al Azm al Foglio – L’unico luogo in medio oriente dove sembra esserci posto per la libertà di espressione è Beirut. Il Libano, con tutti i suoi problemi, rimane l’unico paese in cui è possibile, per esempio, pubblicare un libro”. Aggiunge però l’autore ottantaduenne: “Il mio libro resta attuale in ragione della totale sterilità dei grandi centri di studio della dottrina islamica, da Al Azhar al Cairo a Zaytuna in Tunisia”.
Al filosofo chiediamo cosa ci possa essere alla radice di questa situazione, tra chiusure intellettuali e derive violente: “Parlare di irrazionalità è fin troppo riduttivo – risponde – Siamo di fronte a una follia”. Il primo fattore che ha determinato questo “ritorno dell’islam violento”, spiega, “è il fallimento culturale, ideologico e politico del nazionalismo, del socialismo, del populismo e del terzomondismo arabi. Questo fallimento ha creato un vuoto che è diventato evidente dopo la sconfitta del 1967 contro Israele nella Guerra dei sei giorni. E’ in quel momento che il sistema è collassato”. “Il consenso dei nazionalisti arabi non morì di morte naturale – prosegue al Azm – ma venne reciso di netto dalla violenza della sconfitta. Il vuoto, quindi, si creò in maniera improvvisa, e l’islam si precipitò per colmarlo”. L’altro fattore alla base della deriva violenta dell’islam è, secondo il filosofo, più recente, e consiste nel “fallimento del progetto di islam politico messo in piedi dai Fratelli musulmani e da organizzazioni simili. Quando un’ideologia giunge in un vicolo cieco, alcune componenti di essa cominciano a pensare che ci si possa fare strada con la violenza”. Infine: “Attribuire sempre agli altri i propri problemi interni, additando per esempio l’imperialismo occidentale, è diventato ormai una costante nel mondo arabo. Ma rappresenta un’autosconfitta, è soltanto il tentativo di trovare una via di fuga per non affrontare le proprie responsabilità e i propri fallimenti”.
Per inviare la propria opinione al Foglio, telefonare 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante