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Il Foglio Rassegna Stampa
20.04.2016 Stella e strisce: ebraismo e politica estera americana
Analisi di Antonio Donno

Testata: Il Foglio
Data: 20 aprile 2016
Pagina: 2
Autore: Antonio Donno
Titolo: «Stella (di David) e strisce. Ebraismo vs politica estera americana»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 20/04/2016, a pag. 2, con il titolo "Stella (di David) e strisce. Ebraismo vs politica estera americana", l'analisi di Antonio Donno.

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Gli ebrei americani hanno dato un vero contributo al nazionalismo ebraico, al sionismo, cioè a quel movimento che ha portato alla nascita dello stato di Israele? Quale che sia la risposta, qual è l’esito odierno del rapporto che si venne o non si venne a creare tra l’ebraismo americano e il sionismo, anche dopo la creazione di Israele? Si tratta di un problema che non è confinato soltanto alle pagine della storia, ma ha una valenza attuale importante, oltre che nella sua proiezione nel futuro.

L’ebraismo americano ha vissuto una vita del tutto diversa da quella dei correligionari europei e questo dato ha avuto ed ha un rilievo decisivo nella sua collocazione ideale e politica nell’universo ebraico internazionale. Esso ha vissuto in un contesto stabilmente liberale, sostanzialmente immune dall’antisemitismo e questa fortunata realtà ha un peso rilevante nella visione che l’ebraismo americano ha avuto della politica internazionale soprattutto dal secondo dopoguerra ad oggi. Gli ebrei americani sono ebrei e americani nello stesso tempo: non si tratta di una doppia identità, ma di un’identità unica che ha due momenti intimamente connessi grazie alla cultura liberale, plurale in cui si sono radicati.

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Questo è il succo dell’analisi dello studioso di relazioni internazionali Michael N. Barnett nel suo “The Star and the Stripes: A History of the Foreign Policies of American Jews” (Princeton University Press). Le “politiche estere” dell’ebraismo americano sono legate alla stella (di Davide) e alle strisce (americane), che Barnett considera strettamente collegate dalla cultura liberale in cui l’ebraismo americano si è sviluppato, al di là delle diverse posizioni politiche e religiose che lo hanno caratterizzato dalla fine dell’Ottocento a oggi. Ma è così? Barnett, nella sua analisi, sembra considerare il sionismo come uno sgradevole incidente di percorso nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’ebraismo americano, un fastidioso intoppo nella continuità di uno sviluppo sociale e culturale al riparo dal riproporsi periodico dell’antica malattia dell’antisemitismo della Vecchia Europa.

L’ebraismo americano, per questo motivo, ebbe difficoltà a riconoscere e tanto meno a identificarsi con il sionismo, o lo accettò in una versione americana che non prevedeva la nascita di uno stato ebraico in Palestina, perché riteneva che gli Stati Uniti potessero essere la “homeland” degli ebrei del mondo: la diaspora ebraica si sarebbe riunita in una nuova “terra promessa”. Solo tempo dopo, scrive Barnett, “per molti ebrei americani Israele è divenuto parte della loro anima”. Questo è solo parzialmente vero e solo in determinati momenti, quando l’esistenza di Israele è sembrata in pericolo. In questo consistono le “politiche estere” dell’ebraismo americano, diviso tra liberalismo e tribalismo, per usare un termine di Barrett. In effetti, la nascita di Israele, di uno stato degli ebrei, sembrò a molti ebrei americani un fenomeno tribale assimilabile alle comunità ebraiche separate dei secoli precedenti in seno alle società cristiane europee o nel mondo islamico. Barnett sembra non accordare molta importanza a questo dato, che invece gioca un ruolo importante nella visione che gli ebrei americani hanno della realtà di Israele.

L’analisi di Barnett non si sottrae al sospetto che in fondo per gli ebrei americani l’esistenza di Israele deve essere difesa quasi solo nel momento in cui è in pericolo, una sorta di recupero di coscienza di una storia plurisecolare da cui, tutto sommato, anche l’ebraismo americano discende; ma la cultura liberale (o meglio, liberal) di cui è imbevuto, con la sua appendice di cosmopolitismo e umanitarismo, predomina nel giudizio che spesso i settori “progressisti” dell’ebraismo americano danno della politica di Israele, distinguendo talora tra governi laburisti e governi conservatori. Barnett elude questo problema di fondo, anche se deve ammettere che “il liberalismo è centrale nella loro concezione del giudaismo”. Ma non riconosce che la cultura liberal di gran parte dell’ebraismo americano presenta un ostacolo quasi insormontabile per una giusta valutazione della difficile realtà di Israele in un contesto che ne vuole la distruzione. Detto in altra maniera: l’ebraismo americano liberal ha difficoltà a riconoscere nello stato di Israele la culla dell’ebraismo e della sua ancestrale appartenenza alla terra avita. Vede nello stato degli ebrei una forma di nazionalismo difficile da digerire e da inserire in una visione liberale e cosmopolita che rappresenta la base culturale su cui è cresciuto l’ebraismo americano.

Ma Barnett trascura un altro aspetto fondamentale. L’ebraismo americano non è un monolite. Se fosse così, la conclusione dell’analisi sarebbe semplice. Accanto agli ebrei americani liberal vi è un numero forse altrettanto grande di ebrei conservatori, la cui visione del posto dell’ebraismo americano nel mondo non è separata da quello degli ebrei di Israele, ma è in intima connessione con esso, con tutto ciò che culturalmente e identitariamente discende. Questa realtà è assente nel libro di Barnett.

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