Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/04/2016, a pag. 15, con il titolo "L'ultima sfida del boia di Auschwitz", il commento di Tonia Mastrobuoni.
Tonia Mastrobuoni
Reinhold Hanning
Quello che resta delle sue 170.000 vittime
«Tu sai cos’è successo a tutte quelle persone, tu hai aiutato a ucciderle. Dillo! Dillo!». Inutile insistere. Reinhold Hanning non la degna di uno sguardo. Uno degli ultimi aguzzini di Auschwitz tace. Ostinatamente. Anche quando Angela Orosz Richt-Bein, nata alla fine del 1944 nel campo di sterminio polacco, gli grida di guardarla. Pesava un chilo, quando era nata. La madre era sopravvissuta agli esperimenti di Josef Mengele, alle sostanze oscure che l”Angelo della morte” le aveva iniettato nel ventre, mentre era incinta. Angela venne al mondo troppo debole per piangere. La madre riuscì a nasconderla e a salvarle la vita per questo. E ora che si ritrova davanti a una guardia di Auschwitz, 71 anni dopo, Angela grida invano.
Tace da nove udienze, Reinhold Henning, si fissa ostinatamente le ginocchia, non alza mai gli occhi. E gli avvocati di questo 94enne entrato nella gioventù hitleriana a 13 anni, divenuto a 18 un SS della temibile divisione delle “Teste di morto”, non fanno che pressare la corte e i testimoni, ricordano ossessivamente che Henning ha due ore di autonomia al giorno, che non può concedere un minuto di più ai sopravvissuti. Che hanno spesso la sua età, che hanno aspettato una vita questo momento, che sono arrivati dagli Usa, dal Canada, da Israele per incontrare il loro aguzzino. Lui, una tranquilla vita da lattaio dalla fine della guerra ad oggi, costringe i suoi avvocati persino a leggere le sue generalità. Umilia le sue vittime fino all’ultimo. La sfilata dei sopravvissuti, nelle numerose udienze che si sono tenute nei mesi scorsi a Detmold, è impressionante. Uno dopo l’altro, sul banco dei testimoni si alternano le vittime delle atrocità naziste, una dopo l’altra si accavallano le storie agghiaccianti di chi è sfuggito alla macchina della morte di Auschwitz. Hanning è ritenuto corresponsabile di 170mila vittime dell’Olocausto.
Un capo di accusa nuovo, accettato solo di recente dai tribunali tedeschi. Per decenni pretendevano che le responsabilità dei boia nazisti venissero provate nel dettaglio. Per il solo fatto di lavorare in una atroce macchina dello sterminio come Auschwitz, non si poteva essere ritenuti complici. Da quando però, nel 2011, il boia di Treblinka, John Demjanjuk, è stato condannato senza prove dirette di atrocità commesse, per la sua presenza nel campo di sterminio di Sobibor, esiste un precedente importantissimo. E finalmente gli ultimissimi sopravvissuti dei 6.500 membri delle SS che hanno lavorato ad Auschwitz possono essere trascinati davanti a una corte. Finora in Germania ne sono stati condannati, dalla fine della guerra ad oggi, appena 29.
Al processo di Henning, sono in molti a supplicarlo, quasi, a parlare, a guardarli. Anche Leon Schwarzbaum: «Abbiamo la stessa età, dica la verità. Ora che sono qui, dica cosa avete fatto». Da 70 anni, è torturato da un ricordo: «Un camion aperto da cui si levavano decine di braccia nude, gente portata alle camere a gas, un’immagine dantesca, che mi perseguita». Per l’86enne Tibor Eisen, di Toronto, è invece una scena delle docce che gli toglie il sonno da decenni. E un rumore. «Un uomo aveva degli occhiali molto spessi. Li perse mentre faceva la doccia, si chinò per raccoglierli e un SS gli diede un calcio in faccia. L’uomo cadde, l’ufficiale nazista gli montò sopra e cominciò a battergli i piedi sul petto. Sentivo il rumore delle costole che si spezzavano. Finché non si mosse più. Era morto». Alla prossima udienza, il 29 aprile, pare che Henning voglia far leggere una dichiarazione. Ovviamente, nessuno potrà fare domande.
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