Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 16/04/2016, a pag.56, con il titolo "Lo straniero: la vita blindata di Kamel Daoud" di Raphaelle Bacqué, uscito su Le Monde, un quotidiano rigorosamente di sinistra, ma che rispetto ai confratelli italiani sull'islam, da un po' di tempo, pubblica analisi e commenti tutt'altro che conformisti.
Nel presentare il pezzo, Repubblica ricorda un precedente articolo di Daoud, nel quale commentava le violenze contro le donne la notte di capodanno a Colonia, scrivendo " quando decine di donne furono molestate da musulmani". Intanto i musulmani erano migliaia, e le donne non vennero 'molestate', ma attaccate, derubate e molte stuprate. Non ci paiono 'molestie', ma al redattore di Repubblica, evidentemente, sì.
Ecco l'intervista a Kamel Daoud:
Raphaelle Bacqué Kamel Daoud
ORANO - Scesi dall’aereo proveniente dalla Francia, il poliziotto algerino esamina a lungo il visto «giornalista». Chiama un collega. Poi un altro. E ancora un terzo. «Perché volete incontrare Kamel Daoud?». «Perché è un grande scrittore algerino… ». «Sì, ma perché lo volete incontrare?» «Appunto perché è un grande scrittore algerino…». Nella fila dietro di noi, nessuno si spazientisce, ma sembra che tutti ascoltino con estrema attenzione. Un signore molto elegante mormora, con quell’accento dolce degli oraniani: «Ditegli che ha quasi vinto il premio Goncourt…». Dietro di lui, un altro uomo sussurra, a voce abbastanza bassa da non farsi sentire: «Ma non parlate troppo dei suoi articoli…». Il timbro schiocca sul passaporto. Siamo passati. Benvenuti a Orano, la città di cui Kamel Daoud è al tempo stesso star e volto controverso. Per telefono, nelle settimane precedenti, lo scrittore non aveva misurato le parole. Dopo il successo del suo romanzo Il caso Meursault – un brillante resoconto che restituisce un’identità all’”arabo” assassinato dal protagonista del famoso romanzo di Albert Camus, Lo straniero, e che ha vinto il premio Goncourt per il miglior romanzo d’esordio nel maggio del 2015, dopo la sua pubblicazione per i tipi della casa editrice algerina Barzakh nel 2013 e poi di quella francese Actes Sud nel 2014 – Kamel Daoud aveva paura di non avere più il controllo della sua vita. «Non posso più prendermi una birra senza che qualcuno me la voglia offrire », imprecava. «Se scrivo una parola in Algeria, la citano fino in Svezia. Potrebbe essere lusinghiero per l’autostima, ma è un inferno». Troppe sollecitazioni dal mondo intero (il suo libro è già stato tradotto in 29 lingue, in Italia è uscito per Bompiani), troppe tournée nelle grandi università americane , troppe trasmissioni televisive in Francia. A 45 anni, ci diceva non voleva «cedere alla vanità, che è nemica del talento». In Francia, il suo editoriale Colonia. Il corpo delle donne, pubblicato il 10 gennaio da Repubblica e il 5 febbraio da Le Monde, un mese dopo le aggressioni ai danni di decine di giovani tedesche accorse a trascorrere la notte di San Silvestro a Colonia, ha lacerato la sinistra. In piena crisi dei profughi, Daoud vedeva in quell’episodio una manifestazione della «miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano» e del suo rapporto malato con le donne. L’articolo gli ha attirato i rimproveri desolati di Adam Shatz, l’amico giornalista che un anno prima gli aveva dedicato un lungo ritratto sulle pagine del New York Times. In Francia, una quindicina di universitari lo ha tacciato di «islamofobia». Per tre settimane i media hanno ospitato le opinioni dei suoi sostenitori, favorevoli al «libero pensiero», e dei suoi avversari, che rifiutavano «lo scontro di culture». Perfino Manuel Valls gli ha espresso pubblicamente il suo sostegno. Il 2 marzo, stanco delle polemiche, lo Daoud ha annunciato la sua intenzione di abbandonare il giornalismo e la rubrica che tiene da diciannove anni sulle pagine del Quotidien d’Oran. Daoud ci fissa un appuntamento nel tardo pomeriggio. Ha scelto, curiosamente, un albergo ultramoderno e senza fascino, costruito in una di quelle nuove zone industriali che fioriscono un po’ dappertutto a Orano. «Il luogo è sicuro», ci ha detto al telefono. L’hotel si chiama Liberté. Lo scrittore arriva direttamente in macchina dalla nuova casa in cui si è trasferito, una di quelle residenze moderne dove si può entrare solo dopo aver dichiarato a un sorvegliante la propria identità. Fuma molto. Due occhiaie violacee sottolineano lo sguardo mobile sopra gli zigomi alti. «Scrivere », dice, «è il mio rimedio contro l’angoscia, il solo momento in cui sento di avere consistenza». Un tempo amava leggere all’ombra delle magnolie, nei giardini pubblici di Orano affacciati sul mare. Gironzolava sotto i portici dove per molto tempo visse Camus, si fermava sui gradini della cattedrale del Sacro Cuore, trasformata trent’anni fa in biblioteca. Ma la città è diventata minacciosa. Quest’uomo capace di combattere senza tremare tutti i poteri ora ha paura che un giorno, girando in una stradina, possa saltare fuori un pazzo armato di coltello ad assalirlo. La Francia l’ha invitato a esiliarsi. Lui ha rifiutato recisamente. «Qua la gente mi protegge e conosco i miei avversari», vuole credere. «E poi», aggiunge sorridendo, «da voi sarei meno al sicuro». L’8 marzo, una donna magistrato al tribunale di Orano ha condannato Abdelfattah Hamadache, un imam pressoché sconosciuto, ma sospettato di essere un informatore dei servizi segreti. Nel dicembre 2014 aveva scritto sulla sua pagina Facebook: «Lo scrittore apostata, miscredente, algerino, sionistizzato, criminale, insulta Dio. Facciamo appello al sistema algerino perché lo condanni pubblicamente a morte». Tre giorni prima di questa fatwa, Kamel Daoud era stato invitato alla trasmissione On n’est pas couché, su France 2, che gli algerini guardano grazie a quelle parabole appese un po’ ovunque alle finestre degli edifici. Lo scrittore algerino in quell’occasione non aveva fatto altro che ripetere le cose che scrive da tempo sulla religione, «questo male del mondo arabo che impedisce di avanzare». Ma dichiararlo in Francia, nazione perennemente sospettata di voler rieditare la colonizzazione, è tutta un’altra co- sa. Daoud mostra di non curarsene. «Se sei un intellettuale e un liberale, per molti algerini significa che sei filofrancese», dice alzando le spalle. In queste condizioni, il sostegno che gli ha espresso pubblicamente Manuel Valls rappresenta un problema aggiuntivo. L’interessato non è turbato più di tanto. Ha già detto a Valls che cosa pensava delle polemiche francesi sull’islam, «che rispecchiano, più che la realtà, le vostre spaccature. Siete ossessionati dalla radicalizzazione su internet, ma non vi preoccupate delle decine di televisioni religiose finanziate dall’Arabia Saudita che riversano i loro programmi da voi!». Scende la sera. Nel gruppetto aleggia una sorte di ubriachezza e lo scrittore propone di andare a cenare. Si parla di Houellebecq, che lui ammira. «Mi piace prima di tutto il suo stile, quel modo di raccontare i particolari dell’esistenza. E poi: la gente è scioccata da Sottomissione? Ma è finzione, e la finzione ha tutti i diritti». Di recente ha incontrato lo scrittore di Algeri Boualem Sansal a Saint-Malo. Sansal lo sostiene. Anche lui è preso di mira, in Algeria. Non tanto per il suo libro di fantapolitica 2084, che immagina il Paese sotto il tallone totalitario di un potere religioso, quanto per quell’appello alla pace firmato nel 2012 insieme allo scrittore israeliano David Grossman. «A volte i miei detrattori scrivono che faccio il Boualem Sansal. E posso assicurarvi che in bocca a loro non è un complimento», sospira. Rimpiange ancora di non aver vinto il premio Goncourt, assegnato nel 2014 a Lydie Salvayre. «Vi immaginate che evento sarebbe stato nei Paesi francofoni? Per la lingua francese?», dice, divertito al solo pensiero. Parla perfettamente l’arabo, al punto che ha supervisionato la traduzione del Caso Meursault. Ma il francese resta per lui «la lingua in cui ha imparato a essere libero». Ha ancora da scrivere i due prossimi romanzi, di cui accarezza l’idea da parecchio tempo. Ma prima deve terminare, il 30 aprile, la sua rubrica settimanale per Le Point. E consegnare un ultimo editoriale al New York Times. «Il giornalismo è come l’amore: se menti, si capisce», sentenzia. Le strade di Orano sono completamente vuote ora, anche se non è ancora mezzanotte. Daoud sognerebbe di passare due giorni in libertà a Parigi. Ma quando lascia la sua città per più di qualche settimana ne sente già la mancanza. «Anch’io, come Camus, sono preso fra due culture, e questa cosa mi tormenta», dice sorridendo. E poi, come per associazione di idee, proprio mentre ci stiamo congedando, si lascia sfuggire: «Non voglio caricarmi una guerra sulle spalle».
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