Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/04/2016, a pag. 43, con il titolo "La sinistra non capisce l'islam", l'intervista di Fabio Gambaro a Jean Birnbaum.
A destra: un terrorista islamico: nella mano destra l'obiettivo, nella sinistra lo strumento
Fabio Gambaro
Jean Birnbaum
«Anche se motivato da lodevoli intenzioni, e cioè dalla volontà di non condannare tutta una comunità, è un errore dire che i terroristi del Califfato non hanno nulla a che fare con l’islam». Parte da qui la riflessione di Jean Birnbaum, studioso francese, nonché responsabile del supplemento libri di “Le Monde”, che ha da poco mandato in libreria “Un silence religieux” (Seuil), un saggio controcorren-te, il cui sottotitolo recita: “La sinistra di fronte al jihadismo”. Secondo l’autore, troppi esponenti della sinistra tendono a rimuovere il movente religioso dei terroristi per ingenuità e senso di colpa, ma anche perché sono figli del razionalismo illuminista, motivo per cui non riescono a comprendere la religione come forza autonoma capace di diventare un vero agente politico. «Solo la verità è rivoluzionaria, si diceva una volta. Quindi dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, senza edulcorarla. Possiamo sempre cercare di rassicurarci, dicendoci che i giovani jihadisti sono solo pazzi, mostri o emarginati che vengono manipolati, ma la realtà è ben diversa. Se un terrorista, il cui discorso si rifa di continuo al Corano, uccide in nome di Allah, non possiamo dire che le sue azioni non hanno nulla a che fare con l’islam. Chi siamo noi per negare il suo rapporto con la fede? Purtroppo l’islamismo si esercita in nome dell’islam, anche se per fortuna non tutto l’islam è islamista. I fanatici del califfato hanno origini sociali e culturali molto diverse, l’unico elemento che li unisce è il loro rapporto particolare con la religione. E per sconfiggerli dobbiamo capire che la motivazioni autenticamente religiosa delle loro scelte. Il che evidentemente non significa giustificarli».
La copertina
Non riconoscere la dimensione religiosa del terrorismo islamico è un errore strategico? «Perché significa pugnalare alla schiena tutti coloro che nell’islam sanno benissimo che questa relazione esiste e cercano ogni giorno di combatterla. All’interno del mondo musulmano si sta svolgendo un’aspra battaglia tra due diverse concezioni dell’islam. Dobbiamo prenderne atto e sostenere tutti coloro che cercano di sottrarre la fede ai fanatici che la deturpano, rifiutando un islam violento, intollerante e omicida. Solo riconoscendo il pericolo si può combatterlo. Il problema è che la violenza jihadista non rientra nelle nostre griglie concettuali e in particolare in quelle della sinistra francese che ha completamente rimosso la dimensione religiosa. Parlare solo di povertà o emarginazione — dimensioni importanti — escludendo la religione, è un modo per ricondurre il problema alle nostre abitudini mentali».
Perché la sinistra non riesce a pensare la dimensione religiosa? «La sinistra, in particolare quella francese, si è costruita nel solco della tradizione cartesiana, illuminista e marxista, inseguendo il fantasma dello sradicamento della religione, considerata solo un’illusione, una chimera. Il famoso “oppio dei popoli”, di cui parlava Marx e che l’emancipazione sociale avrebbe dovuto far scomparire. Fedele a questa visione, la sinistra ha rinunciato a pensare la religione e la sua forza. Ma la fede non è sempre il sintomo di qualcos’altro. Seguendo le tracce di uno studioso come Christian Jambet, penso che occorra riconoscere una sorta di materialismo spirituale, nel senso che la fede, lungi dall’essere solo un’illusione o un riflesso, può diventare una forza materiale».
A questo proposito lei rende omaggio a Michel Foucault che fu uno dei primi a sottolineare la valenza politica dell’islam, quando si recò in Iran all’inizio della rivoluzione islamica... «Foucault ha saputo sottolineare la forza propria del messianesimo religioso, tanto che ha parlato di “politica spirituale”. In Iran capì che l’energia che stava dando fuoco alle polveri era la speranza religiosa, riconoscendo tra l’altro che in occidente non sappiamo più cosa sia la politica infiammata dalla fede. Non inseguiamo più “la storia sognata”, che invece in passato è stata importante anche per noi. Proprio perché abbiamo rimosso questa dimensione, oggi ci sembrano impossibili le motivazioni religiose del jihad».
Perché tali motivazioni religiose danno luogo all’iperterrorismo? «L’islamismo è una reazione alla modernità occidentale e al tentativo di modernizzare l’islam. Al contempo è anche una reazione alle umiliazioni che il mondo occidentale ha inflitto al mondo musulmano. Come ha detto Derrida, tutte le comunità sono attraversate dalla pulsione di morte, quindi anche le comunità religiose, che, prima o poi, sono costrette a fare i conti con i problemi identitari, il fondamentalismo e la violenza. Nell’islam oggi però c’è qualcosa di particolare, come sottolineano Mohammed Arkoun o Abdennour Bidar. L’islam si propone come un’alternativa radicale al mondo contemporaneo, quindi — come ogni volta che s’intende farla finita con un certo mondo — si pone la questione della violenza. I jihadisti non vogliono cambiare il mondo, vogliono distruggerlo».
Insomma secondo lei i giovani che oggi vanno in Siria a combattere sarebbero mossi da una spinta ideale che non sappiamo capire? «Non voglio assolutamente banalizzare il male o giustificarlo, ma non si può pensare che questi giovani siano mossi all’inizio solo dall’odio e dal desiderio di annientare gli altri. Quando ascoltiamo le loro motivazioni, scopriamo che sono indignati dal mondo contemporaneo, che non si riconoscono nella democrazia e che desiderano raggiungere i fratelli del Califfato. Insomma, all’inizio sono motivati dal bisogno di giustizia e di fratellanza, da una forma di speranza per noi incomprensibile che poi si manifesta con un volto odioso e violento. Se non capiamo questa speranza radicale, non possiamo capire quello che sta accadendo».
Solo che per loro la speranza non si realizza in terra ma nell’aldilà... «I jihadisti vogliono farla finita con la storia, con la politica e soprattutto con la vita. Da qui il desiderio e l’elogio della morte. Ma tutto ciò nasce da una speranza. La sola questione che conta è quella posta a suo tempo da Kant: che cosa ci è lecito sperare? La sinistra però non capisce più il bisogno di speranza dei giovani e non ha nulla da proporre loro. Di conseguenza, più la speranza radicale profana — quella della sinistra che vuole cambiare il mondo — diserta la realtà, più si afferma una speranza radicale religiosa, che poi produce le tragedie che abbiamo conosciuto. Oggi la sinistra sa solo proporre la gestione del presente».
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