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La Repubblica Rassegna Stampa
14.04.2016 Finalmente in italiano anche le opere di Deborah Kreitman, sorella dimenticata di casa Singer
Recensione di Susanna Nirenstein

Testata: La Repubblica
Data: 14 aprile 2016
Pagina: 49
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «Hinde Esther la sorella dimenticata di casa Singer»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/04/2016, a pag. 49, con il titolo "Hinde Esther la sorella dimenticata di casa Singer", la recensione di Susanna Nirenstein.

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Susanna Nirenstein

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Da destra: Deborah Kreitman Singer, Isaac Bashevis e Israel Joshua Singer

Chissà quale miracolo genetico o formativo stava dietro la famiglia Singer: non ci si può chiedere altro nel leggere “L’uomo che vendeva i diamanti” di Hinde Esther Kreitman Singer, la sorella maggiore dei più celebri Israel Joshua e Isaac Bashevis, perché la sua forza narrativa, nonostante fino a pochi anni fa nessuno ne parlasse, il suo dono, la sua voce unica, sono molto simili a quella dei fratelli. Non a caso nel 1938 Faber&Faber, prestigioso editore inglese, pubblicò un’antologia di “brevi storie ebraiche” che era più un affare di famiglia che altro: 4 degli scrittori, alcuni sotto mentite spoglie, erano i tre Singer e il figlio di Esther. Certo, Israel e Isaac hanno prodotto di più, si sono raffinati col tempo, furono e sono famosi. Isaac ha vinto il Nobel, ma anche Esther (in fotografia sembra uno dei fratelli con la parrucca in testa), che pure, sempre in yiddish, ha concluso alcuni racconti e due romanzi (La danza del diavolo uscirà in autunno sempre per Bollati Boringhieri con una nuova traduzione — era già stato pubblicato come Deborah), anche Esther, dicevamo, scrive a passo di trotto, e ogni cosa con lei è illuminata, ogni cosa palpita, spinge a immergersi nella trama tra storie individuali e la più complessa tessitura della Storia. Ed è sempre l’ebraismo del Novecento — e i suoi mutamenti — a far da padrone.

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La vera differenza è che i due maschi Israel e Isaac cercano con nostalgia di difendere e ricreare il passato, Esther Kreitman di demolirlo. Nel caso di Hinde Esther, ma anche degli altri due Singer, non è merito del padre o della madre. Non la fecero neppure studiare. Il babbo, il reb chassidico e misticheggiante Pinchos Mendel Singer, la disprezzava in quanto donna («chi sarò da grande? », gli chiedeva bambina, e lui: «Nessuno»). La mamma, la colta e razionalista Bathsheva, non la sopportava: un primogenito femmina (nata nel 1891 e scomparsa nel 1954) non le aveva fatto onore, e lei l’aveva subito data a balia a una famiglia povera che teneva la culla sotto il tavolo di cucina (tra ragnatele e sporcizie varie dannose per i suoi occhi).

Esther tornò a casa a tre anni, ma Bathsheva non la toccava mai, la considerava isterica, pazza (forse un po’ instabile lo era davvero, poveretta, e una volta adulta soffrì di depressione) come racconta Isaac in Alla corte di mio padre. Appena fu possibile, la sognante Esther fu affidata a un matrimonio combinato (1912) col polacco Avraham Kreitman, giovane espatriato ad Anversa, a quei tempi tagliatore di diamanti. Non paga, mentre andavano a Berlino per quelle nozze destinate al fallimento, la madre Bathsheva buttò dal finestrino del treno tutte le storie scritte dalla figlia, per paura, disse, che la polizia di frontiera le scambiasse per fogli sovversivi. In realtà non sopportava le ambizioni letterarie della ragazza, dote che invece Isaac le riconosceva, seppur con sufficienza e non aiutandola mai, in niente, nemmeno quando faceva la fame.

Fu così che Esther non perdonò né alla famiglia, né alla tradizione, quello che le avevano fatto, anche se verso Israel Joshua (più piccolo di lei di soli 2 anni) ebbe una sorta di adorazione non corrisposta (c’è un articolo del figlio Morris Kreitman pubblicato su un Commentaire del 1992 che racconta bene i loro agghiaccianti e scarsissimi incontri e anche di come Isaac le dedicò un libro sbagliandone il nome!).

È con questo spirito frustrato, ribelle, rivendicativo quanto ricco di aspirazioni emancipative che Esther affronta la pagina bianca. E infatti le femministe furono tra le prime a riscoprirla. Dalla Londra dove erano andati a vivere con la Prima Guerra Mondiale, si staccava continuamente dal marito provando a rivivere a Varsavia (fu qui, nel ‘26, che tradusse in yiddish Dickens e Bernard Shaw), e fu da qui che iniziò a pubblicare i racconti su vari giornali yiddish nel mondo (nella raccolta Yikhes, uscito solo nel 1949, ce n’è uno, The New World, dove un feto lotta con la madre già prima di nascere).

Ma infine si stabilì in Inghilterra, dove fece anche la rammendatrice per mantenersi, e visse tra infelicità, turbamenti psico-neurologici, e ristrettezze, anche se si rinfrancava un po’ frequentando i circoli socialisti. A Londra scrisse La danza del diavolo — edito nel 1936 — la cui protagonista Deborah vuole smetterla di sottostare ai suoi doveri di casa e studiare. Era la sua storia. Non per niente Isaac Bashevis disse che quando ebbe l’idea di Yentl, il famoso romanzo dove una giovane si vestiva da uomo pur di fare lo studente in una yeshiva — ne fecero un film con Barbara Streisand — pensava a Hinde Esther, che vedeva tanto desiderosa di sapere da considerarla quasi una chassid in gonnella.

Ed eccoci a L’uomo che vendeva i diamanti (1944), un salto sia stilistico che di contenuti: perché il protagonista è un maschio, e che maschio, un uomo potente, aggressivo e ricco che guarda le persone intorno a lui solo attraverso i costosi prismi delle sue pietre e i loro freddi bagliori; perché esiste anche un narratore onniscente che può entrare nelle personalità di tutti i maggiori personaggi mentre la Storia spinge e arretra. Perché guardiamo l’ignoto microcosmo degli ebrei immigrati ad Anversa da Polonia e Russia e dediti al commercio di diamanti, un mondo sottoposto alle fluttuazioni dell’economia e della politica mondiale, un universo dipinto con una vivacità speciale, mentre arriva la Prima Guerra Mondiale, i tedeschi bombardano, la città viene evacuata e gli sfollati ebrei trasferiti a Londra dove devono riorganizzarsi una vita. Ma c’è di più. Il protagonista Berman non è solo un grand’uomo d’affari deluso dal figlio fannullone e pronto a vendere la sua splendida figlia a un vecchio commerciante benestante, non è semplicemente un mostro a senso unico insomma, è un uomo sfaccettato e complesso: alle spalle ha un’infanzia di estrema miseria con una madre orribile e un babbo religioso buono ma inetto e malato che dopo tanti anni si ripresenta alla porta della magione Berman e viene accolto con tutti gli onori tra le mura domestiche di Anversa. Aria di Freud dunque, c’è da contarci. E c’è anche l’amore, passionale e infelice, i rapporti senza matrimoni, il desiderio e la passione femminile, la necessità di abortire, gli agitatori socialisti, la morte. Forse la fine tragica è troppo repentina, poteva esser costruita in un maggior crescendo, ma che importa, noi ci sentiamo come fossimo verso il 1910 nel salotto di casa Singer, a Bilgoray, e cerchiamo di capire come sono stati stampati questi tre geni che abbiamo di fronte.

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