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Il Foglio Rassegna Stampa
13.04.2016 Islamismo e libertà: il pericolo non è solo il terrorismo
L'opinione di Bret Stephens, analisi di Luciano Pellicani

Testata: Il Foglio
Data: 13 aprile 2016
Pagina: 3
Autore: Wall Street Journal - Luciano Pellicani
Titolo: «L'islam ha un problemino con l'occidente radicale. E viceversa - Tutti i pericoli mortali della minaccia islamista per l'occidente»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/04/2016, a pag. 3, con il titolo "L'islam ha un problemino con l'occidente radicale. E viceversa", l'editoriale del Wall Street Journal; con il titolo "Tutti i pericoli mortali della minaccia islamista per l'occidente", l'analisi di Luciano Pellicani.

Ecco gli articoli:

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Islamismo e libertà di parola

"L'islam ha un problemino con l'occidente radicale. E viceversa"

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Bret Stephens

Alcuni anni fa ebbi una conversazione con tre giovani uomini musulmani che nella sala d’attesa dell’aeroporto di Heathrow aspettavano di imbarcarsi per un volo verso Islamabad. Io stavo andando in Pakistan per realizzare un reportage sulle conseguenze del devastante terremoto nel Kashmir, mentre loro stavano partendo per andare a svolgere ciò che definivano vagamente come un’‘attività di beneficienza’. Indossavano una shalwar kameez bianca, avevano la barba tagliata in stile salafita, e parlavano con un accento da sud di Londra. Provai a indirizzare la conversazione verso la questione del terremoto, ma loro volevano parlare di politica. Mi chiesero se avessi visto ‘Fahrenheit 9/11’, di Michael Moore, ma evitai di esprimere la mia opinione su un film che loro sembravano quasi venerare. La scomoda verità sull’Amerika svelata da un americano: autorità e autenticità in un colpo solo”.

Bret Stephens, editorialista del Wall Street Journal, ieri ha preso spunto da questo racconto per proporre una riflessione sul rapporto islam e occidente. “Ripenso a quello scambio di battute ogni volta che torna d’attualità il tema del fondamentalismo islamico. C’è un vasto consenso nella letteratura su come i giovani musulmani – spesso nati in occidente in famiglie di classe media e non particolarmente religiose – finiscano per aderire di frequente alla jihad. Basti pensare a Mohammed Emwazi, laureatosi all’Università di Westminster e poi divenuto celebre con il nome di Jihadi John, o a Maj. Nidal Malik Hasan, responsabile dell’infamia di Fort Hood. O ancora a Najim Laachraoui, che studiò ingegneria elettrica alla prestigiosa Università cattolica di Lovanio prima di farsi esplodere neanche un mese fa a Bruxelles, o ai fratelli Tsarnaev, responsabili della strage di Boston, e a Syed Farook, di San Bernardino”. La lista è lunga, nota Stephens, e in molti casi gli investigatori sono stati capaci di identificare gli agenti responsabili della radicalizzazione: Maj. Hasan teneva una corrispondenza con l’imam estremista Anwar al-Awlaki; Laachraoui pare fosse finito sotto l’influenza di un predicatore di Molenbeek di nome Khalid Zerkani; i fratelli Tsarnaev fabbricarono la propria bomba seguendo i dettagliati suggerimenti forniti da “Inspire”, la rivista in lingua inglese pubblicata dal gruppo yemenita di al Qaeda.

“Ma l’influenza dei vari Awlaki nel mondo non può spiegare completamente il background mentale di questi jihadisti”, puntualizza l’editorialista del Wall Street Journal. “Essi sono infatti anche figli dell’occidente: educati nelle scuole del multiculturalismo, cresciuti con le opere di Noam Chomsky e Frantz Fanon, consumatori di una dieta informativa fatta di notizie incentrate sulla brutalità dei soldati americani, britannici o israeliani. Se l’islamismo rappresenta la loro droga preferita, i dogmi politici della sinistra moderna costituiscono la porta d’accesso ad essa”. Per capirlo, secondo Stephens, basterebbe sfogliare l’ultimo numero di “Inspire”, dove, assieme a un’illustrazione che spiega passo dopo passo come costruire una granata e ad un’analisi sul massacro di Charlie Hebdo, è presente un lungo articolo sull’oppressione dei neri in America, a partire dall’uccisione di Michael Brown a Ferguson. Il numero della rivista della primavera del 2013, invece, contiene “un messaggio all’America” da parte del capo di al Qaeda, Qassim Ar-Reimy, in cui quest’ultimo si chiede se “intromettersi nei nostri affari e instaurare al potere tiranni e lacchè pronti ad uccidere e ad opprimere sia perdonabile”.

“Lasciateci stare con la nostra religione, la nostra terra e la nostra nazione, e preoccupatevi dei vostri affari interni”, scrive il leader – oggi emiro. “Salvate la vostra economia, concentratevi sui vostri problemi, perché è la cosa migliore da fare vista la situazione in cui vi trovate”. “Questo non è il linguaggio dell’islam e della sua intensa tradizione di conquista”, commenta Stephens. “Questo è il linguaggio della sinistra progressista, di ciò che Jeane Kirkpatrick, nella convention repubblicana del 1984, definì la folla del ‘Blame America First’ (‘E’ tutta colpa dell’America’), e che corrisponde alla visione della sinistra che raffigura l’occidente come il costante peccatore e il resto del mondo come sua perenne vittima”. “Lo consideriamo radicale solo perché proviene dalla penna di un terrorista, ma se fosse stato usato in un editoriale del Guardian avrebbe prodotto il consenso chino di molti lettori, una sprezzante alzata di spalle da parte di altri, e in ogni caso nessuna grande discussione”.

Il columnist del quotidiano americano rievoca così un’espressione coniata da un suo ex collega, Thomas Frank, agli inizi degli anni 90, cioè quella di “mercificazione del dissenso”, per spiegare come il capitalismo trasformi ogni genere di fenomeno controculturale e ogni idea radicale in prodotti simili a tutti gli altri, da vendere e distribuire attraverso i canali abituali. “La mercificazione del dissenso può avere come effetto quello di mitigare l’impatto delle nozioni estreme, ma può anche offuscare la nostra mente in relazione all’estremismo, lasciandoci meravigliati quando qualcuno decide di tradurre queste nozioni in azione”. Il concetto di catarsi della violenza, descritto da Frantz Fanon nel suo “I dannati della terra”, può apparire come un’idea interessante da trattare sui libri, ma “nella pratica si traduce nei corpi dei giovani uomini e donne freddati in una sala concerti di Parigi”. “Siamo diventati pigri nel riflettere sull’islam e sull’occidente. Il punto non è se l’islam predicato dall’Isis o da al Qaeda sia ‘radicale’ o tradizionale, ma se l’occidente è in grado di riconoscere che il nichilismo morale dei Jihadi John di oggi non è che la logica conseguenza del relativismo morale affermatosi come religione nell’occidente attuale”.

Luciano Pellicani: "Tutti i pericoli mortali della minaccia islamista per l'occidente"

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William Brennan

La risposta dell’occidente alla minaccia islamista contiene due potenziali pericoli per le istituzioni sulle quali è centrata la civiltà in cui e di cui viviamo: lo stato di diritto e la laicità. Non pochi oggi sono coloro che, in America come in Europa, per estirpare il terrorismo jihadista, auspicano la creazione di poteri eccezionali. Una richiesta – la loro – che, se fosse accolta, porterebbe – automaticamente e irresistibilmente – all’abolizione di quella che è stata la conquista più preziosa della modernità: lo stato costituzionale, rigorosamente garantista e rispettoso dei diritti dei cittadini. E porterebbe anche all’introduzione della tortura. E infatti, nei mesi successivi al trauma dell’11 settembre 2001, la società americana è stata lacerata da un acceso dibattito sulla liceità di usare metodi brutali per annientare coloro che minacciano la sicurezza nazionale.

Contemporaneamente, l’Fbi inviò un rapporto al governo nel quale si sottolineava che, a motivo dei vincoli giuridici vigenti, non era stato possibile ottenere informazioni dai terroristi che erano stati arrestati; e si sottolineava anche che, data la gravità della situazione, era prevedibile che sarebbe stato necessario ricorrere a metodi straordinari, come era già avvenuto in passato. In effetti – stando a quanto a suo tempo, aveva pubblicamente ammesso il giudice della Corte Suprema William Brennan -- i governi americani, in tutte le situazioni dominate dalla paura del nemico nascosto, hanno sistematicamente violato i princìpi della civiltà giuridica; e lo hanno fatto con il sostegno di autorevoli opinion makers. Non sorprende pertanto, che il Wall Street Journal, influente organo dei conservatori, pochi giorni dopo l’abbattimento delle Twin Towers pubblicò un editoriale nel quale erano denunciati gli “eccessi del sistema giudiziario penale in vigore negli Stati Uniti”, il quale, con i suoi rigorosi “criteri di ammissibilità delle prove” e con le sue “regole di esclusione delle prove illecite”, rendeva pressoché impotenti gli agenti cui era stata delegata la protezione dei cittadini.

Stando così le cose, non può destare sorpresa alcuna la preoccupazione espressa da numerosi giuristi e filosofi americani che una delle più esiziali conseguenze della guerra contro il terrorismo islamista potrebbe essere l’adozione – di fatto, se non proprio di diritto – di pratiche lesive non solo dei princìpi che sono alla base della civiltà occidentale, ma anche della libertà dei cittadini. Come, per esempio, il monitoraggio delle comunicazioni private, che oggi le sofisticate tecnologie disponibili rendono facilmente attuabile. Il che significherebbe la materializzazione dello spettro del Grande fratello che tutto controlla, vede e sente; e che, in aggiunta, può persino torturare chi, a suo insindacabile giudizio, costituisce un pericolo – reale o virtuale – per la sicurezza nazionale.

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Alan M. Dershowitz

Di fronte a una tale inquietante prospettiva, il celebre avvocato americano Alan M. Dershowitz – dopo aver ricordato che la “strada della dittatura è sempre stata lastricata dei motivi di necessità addotti dai responsabili della sicurezza di una nazione” – ha invitato i suoi connazionali a tenere costantemente presente la risposta data dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a chi gli suggeriva di torturare i brigatisti detenuti per salvare la vita di Aldo Moro: “La democrazia italiana può sopravvivere alla perdita di Moro, ma non può sopravvivere all’introduzione della tortura”. Il secondo pericolo mortale che incombe sulla civiltà occidentale è la tentazione di rispondere alla guerra santa in nome del Corano con la guerra santa in nome della Bibbia. Infatti, non poche sono le sette fondamentaliste americane che sono mosse dalla credenza che la “degenerazione pagana” – che, come un cancro morale, affligge l’America – va energicamente contrastata in nome della “inerranza” delle Sacre scritture.

Le più potenti delle quali sono la Chiesa dell’unificazione fondata dal reverendo Sun Myung Moon e la Christian Coalition il cui influente portavoce è Ronn Torossian, che non fanno mistero che il loro obiettivo è l’abbattimento del “muro di separazione fra lo stato e la chiesa” voluto dai Padri fondatori della Costituzione americana e l’istituzione di una “teocrazia autocratica” per combattere efficacemente sia il “secolarismo ateo” che l’islam, entrambi percepiti e stigmatizzati come irriducibili nemici dell’America e dei suoi valori cristiani. Alla luce di questo inquietante paesaggio, opportunamente Paolo Prodi ha osservato che, qualora la risposta delle sette fondamentaliste cristiane – centrata sulla bellicosa contrapposizione di una teologia a un’altra teologia – prevalesse sulla risposta laica, l’inevitabile risultato sarebbe “la fine della nostra identità occidentale”, basata sulla rigorosa separazione fra la sfera del sacro e la sfera del profano e, conseguentemente, sul più ampio pluralismo religioso.

Ma, oltre al mortale pericolo che, per combattere efficacemente il fondamentalismo islamista, l’occidente ne assuma scimmiescamente i tratti tipici, c’è un altro fenomeno che minaccia le fondamenta della civiltà liberale: la conquista dell’Europa da parte dell’islam. Molti sono gli osservatori che, ancora oggi, trascurano la cosa. Ma la sua rilevanza storica non sfuggì a Gheddafi, quando, rivolgendosi pubblicamente ai jihadisti, ricordò loro che la vittoria dell’islam era ormai una questione di tempo. Lo certificavano i sondaggi e le proiezioni degli istituti di ricerca, da cui emergeva che intorno al 2050 l’islamismo sarebbe stato il credo religioso più diffuso in Europa. Due sono i processi che ampiamente corroborano un tale futuro. Il primo è l’imponente flusso migratorio che sta cambiando – e in modo radicale – la composizione demografica del Vecchio continente.

Il secondo è costituito dalla silenziosa potenza espansiva della secolarizzazione che ha fatto emergere un novum così descritto da Enzo Bianchi: “La sopravvenuta condizione di minoranza da parte dei cristiani, minoranza numerica di fronte a una gran massa di indifferenti e di agnostici rispetto alla Fede”. Ancora più desolante la diagnosi dello stato di salute del cristianesimo formulata dallo scrittore cattolico Simon Hyppolite: “Dal momento che né la fede nella creazione, né la fede nella resurrezione di Cristo sono presenti nella maggioranza dei francesi, è inevitabile concludere che essi non hanno più idea di ciò che è o potrebbe essere la fede in un Dio trascendente. In altri termini, la maggioranza dei francesi si trova fuori della tradizione giudaico-cristiana: se essi non procedono più dal monoteismo, significa che procedono da una forma di paganesimo”. Alla stessa conclusione è giunto di recente il sociologo Riccardo Campa, autore di una monografia significativamente intitolata “La rivincita del paganesimo”.

Stando così le cose, la previsione fatta da Gheddafi non era certo un sogno a occhi aperti. Al contrario, si basava sulla constatazione di un doppio fenomeno di enormi proporzioni: che, mentre il numero dei cristiani si riduce ogni giorno che passa, quello dei migranti islamici cresce a vista d’occhio. E questi ultimi sono i portatori di una cultura religiosa che non ha conosciuto la rivincita del paganesimo, grazie alla quale è emerso – dopo laceranti conflitti – il cristianesimo post illuministico centrato sul principio di tolleranza. Come non temere che “l’invasione pacifica del proletariato esterno” potrebbe risultare un pericolo mortale per la nostra laicità?

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