Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi,09/04/2016, a pag. 20, con il titolo "I ragazzi di Raqqa: 'Sfidiamo la paura per raccontare gli orrori dell'Is' ", la cronaca di Francesca Caferri.
Francesca Caferri
Raqqa, roccaforte dello Stato islamico
Come i coccodrilli, Abdelaziz e Hussam non piangono mai. Non quando raccontano degli amici morti. Non quando mostrano le foto più cruente. Tanto meno quando parlano della morte. «Il prossimo potrei essere io — dice Abdelaziz — oppure lui. Ci abbiamo pensato molto dopo che il primo di noi è stato ucciso dall’Is, ma siamo a metà di una strada, indietro non possiamo più tornare». Abdelaziz e Hussam sono i fondatori di Raqqa is being slaughtered silently ( Rbss) una sorta di giornale clandestino che usa i social media per dire al mondo quello che accade nella città diventata capitale dello Stato Islamico. Una finestra di informazione unica per venire a conoscenza delle decapitazioni, delle crocifissioni, degli eccessi dei foreign fighters.
Una finestra che ha portato questi ragazzi in cima alla lista dei nemici dell’Is. Dei 10 membri originari di Rbss, quattro sono stati uccisi (uno legato a un albero e finito con un colpo di pistola alla testa, due sgozzati in Turchia, uno a Raqqa). In tutti i casi le loro immagini sono state diffuse su Internet per dire al mondo che «così si muore silenziosamente », in riferimento al nome del gruppo. Insieme a loro sono morti diversi sostenitori di Rbss, ultimo Naji Jerf ucciso da un colpo di pistola in faccia a Gaziantep, in Turchia. Ma Abdelaziz Alhamza e Hussam Eesa, 24 e 27 anni, non hanno l’aria dei sopravvissuti quando chiedono una vodka in un bar di Perugia. Alto e magro, in short e sneakers l’uno, elegante e curatissimo il secondo, sono semplicemente due ragazzi che vorrebbero rilassarsi dopo l’ennesima giornata passata a ricevere e pubblicare su Internet foto e informazioni dalla loro città.
«Prima di tutto questo — raccontano — eravamo due persone come le altre. Università, calcio e serate con gli amici. Poi è iniziata la rivoluzione e ci siamo uniti alle manifestazioni. Abbiamo cacciato Assad, ma nessuno di noi ha capito quello che stava accadendo quando quelli dell’Is hanno cominciato ad arrivare in città. Sono iniziate le persecuzioni, i divieti, le esecuzioni pubbliche. Abbiamo sentito che dovevamo fare qualcosa, perché Raqqa veniva massacrata in silenzio e nessuno ne parlava. Cosi è iniziato tutto». La loro piattaforma con il tempo si è trasformata nell’unico contatto fra Raqqa e il mondo. Gli account di Rbss sono stati i primi a raccontare della morte di Jihadi John, della piazza principale trasformata in un teatro per le esecuzioni, ma anche del desiderio di libertà della gente comune, quando con i primi raid gli uomini dell’Is sono scomparsi e le donne si sono affacciate a volto scoperto.
«La nostra città oggi è conosciuta come la capitale dell’Is, per noi però è prima di tutto la capitale della resistenza», dice Abdelaziz. «La gente sta sopportando sofferenze enormi eppure non si piega e rischia moltissimo per aiutarci. Vuole che il mondo sappia». Ma la resistenza ha un prezzo e i ragazzi di Rbss lo contano in termini di vite umane. Abdelaziz è fuggito nella primavera del 2014 quando ha saputo che l’Is lo cercava. Hussam una settimana dopo che uno dei suoi migliori amici era stato ucciso perché membro di Rbss. «Prima hanno ucciso Ibrahim, poi hanno individuato Mahmud. È riuscito a scappare, ma hanno arrestato suo padre e suo fratello e li hanno uccisi perché non hanno voluto fare i nostri nomi. Poi hanno sparato a due nostri amici che non facevano parte del gruppo. All’inizio non avremmo mai pensato che ci avrebbero ammazzato. Ma poi è successo. È stato un momento terribile, abbiamo pensato di smettere. Poi abbiamo capito che le nostre vite non valgono più di quelle di chi è morto e che dovevamo andare avanti. Hanno messo le telecamere a ogni angolo della città per trovarci, hanno bloccato l’accesso a Internet e monitorato il segnale dei satellitari. Ma Raqqa è casa nostra, non la loro. Abbiamo cambiato il nostro modo di lavorare e riusciamo ad andare avanti, ma non riusciamo più a piangere: siamo diventati come i coccodrilli». Oggi il gruppo è composto da 27 persone, 17 dentro Raqqa e 10 fuori. Da qualche mese Abdelaziz e Hussam vivono in Germania come rifugiati e hanno deciso di raccontare la loro storia pubblicamente. Ogni giorno ricevono minacce di morte. Ogni giorno si svegliano pensando che quello potrebbe essere l’ultimo. A novembre il loro coraggio è stato premiato dal Commitee to Protect Journalists con uno dei più prestigiosi riconoscimenti giornalistici del mondo. Abdelaziz lo ha dedicato «ai nostri amici martiri, agli eroi anonimi, alla gente di Raqqa».
«Non combattiamo solo contro l’Is — conclude Hussam — ma per il futuro. Non vogliamo una generazione di bambini radicalizzati, come quella che sta crescendo l’Is, non vogliamo vedere solo morte nelle nostre strade. Li batteremo. Prima loro e poi Assad. La rivoluzione è lunga, ci vorrà tempo ma vincerà, perché noi non torneremo indietro. Neanche a costo della vita».
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