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La Repubblica Rassegna Stampa
08.04.2016 Una giornata a Tripoli
Analisi di Vincenzo Nigro

Testata: La Repubblica
Data: 08 aprile 2016
Pagina: 18
Autore: Vincenzo Nigro
Titolo: «Sopravvivere a Tripoli»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 08/04/2016, a pag. 18, con il titolo "Sopravvivere a Tripoli", l'analisi di Vincenzo Nigro.

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Vincenzo Nigro

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Tripoli

Buon giorno Tripoli. Alle sei del mattino la città è ancora cullata dal fresco, dall’aria pulita. E dal sogno semplice di una vita tranquilla che tutti vorrebbero. Una città forte, resistente, ma ormai stremata riprende la sua corsa quotidiana. Tra poco sulla tangenziale che i coreani costruirono per Gheddafi tornerà a urlare il traffico dei tripolini, fino a qui sul lungomare di fronte all’ambasciata italiana. Abdel Maghid è un sarto che ha una lavanderia davanti agli uffici della Mellitah Oil & Gas dell’Eni: «Adesso un filoncino di pane costa 33 piastre, un terzo di dinaro. Ai tempi di Gheddafi», dice nel suo italiano incerto, «con 33 piastre ce ne prendevamo 6 o 7. Ma non è soltanto questo: è il caos politico che continua. La Libia non è più un paese unito e temo che non lo sarà più, la Libia oggi sono mille città, 3 o 4 governi, e magari arriva il quinto…».

In Libia non ci sono statistiche, non c’è mai stato un Istat, e se c’era non funziona più. I prezzi di tutto in poche settimane sono esplosi verso l’alto. Se l’arrivo del governo Serraj ha riportato un pizzico di fiducia, non si vede ancora nessun beneficio reale sull’economia e sulla vita quotidiana dei tripolini. Al cambio ufficiale un euro vale 1,5 dinari, la Nutella in poche settimane è schizzata da 3 a 6 dinari; il bustone di 40 panini all’olio da 1 a 4 dinari, il pacco da 10 chili di pasta da 16 a 24 dinari. Al mercato di Krekia, il bazar di frutta e verdura, il prezzo dei pomodori provenienti da Tunisia e Egitto è raddoppiato. «Per tutto c’è una spiegazione precisa, ma poi ce n’è una più generale: il paese comunque rimane in guerra», dice Osama Nasser, che lavora in banca.

«Costano più cari i prodotti importati, l’80 per cento dei nostri consumi, perché vista l’insicurezza è più difficile far viaggiare i camion. Gli autisti dalla Tunisia devono pagare il pizzo ai doganieri, alle bande di miliziani e criminali appostati lungo la strada». Dopo averla visitata soltanto un mese fa, se possibile Tripoli è peggiorata: le strade sono un disastro, spesso putride più che sporche. Gargaresh è il grande viale commerciale di Tripoli, sulla via verso la Tunisia, negozi riforniti di mobili, elettronica o abbigliamento, da Versace a Panasonic e Scavolini, da Apple a Benetton e Timberland. Perfino un’insegna Ikea, forse un commerciane libico che compra e rivende. Ma alle spalle di questo viale c’è una specie di uadi, un vallone con un rigagnolo che è diventato la discarica della città, con i rifiuti in fiamme per giorni. Il servizio di raccolta dell’immondizia è sospeso perché il comune non può pagare la ditta.

Dalla fine della rivoluzione i due governi libici hanno succhiato i miliardi di dollari che Gheddafi aveva accumulato nei conti in banca del paese. Solo di stipendi (che vengono pagati anche alle milizie che ricattano i capi politici) la banca centrale libica spende 80 miliardi di dollari l’anno. Per non parlare dei sussidi per mantenere bassi i costi di benzina, farina, zucchero e degli altri prodotti di base. Il pieno per una Jeep Cherokee 4.0 a benzina costa 5 euro. Tutti soldi regalati al contrabbando che esporta carburanti e alimentari verso Tunisia, Egitto e perfino Ciad e Niger.

Il dinaro è crollato: «Siamo passati da un cambio ufficiale di 1,5 per euro addirittura a 4 dinari per un euro, da quando c’è Serraj è risalito 3 dinari per euro», dice Mohamed, commerciante della Medina, alle spalle del forte turco. «E considerato che le milizie locali iniziano ad arrestare i cambiavalute in nero è diventato pericoloso anche andare a comprare gli euro, così le banconote da 20 e 50 dinari sono letteralmente scomparse dalla circolazione: la gente se le tiene in casa, nascondendole nei materassi». La paura, appunto. I pochi stranieri che rimangono sono gli ultimi filippini, semi-nascosti in case, alberghi e ospedali. La chiesa di San Francesco è la cattedrale della città da quando il Sacro Cuore costruito nel 1929 venne trasformato in mo- schea da Gheddafi. Questa che era la “chiesa degli italiani” è diventato così il tempio dei filippini. Il venerdì è giorno della messa più importante, perché è anche il giorno di festa musulmano, non si lavora. Il parroco è fratello Alan, un francescano di Manila. «Noi filippini qui siamo come prigionieri», dice una infermiera, «con il dinaro libico così basso non riusciamo a mandare a casa quasi nulla, non riusciamo a trovare i dollari per comprare i biglietti aerei per tornare a casa, i nostri padroni libici sono sempre più violenti, brutali cattivi. Stiamo impazzendo».

E i preti non possono fare molto: «Li aiutiamo psicologicamente e spiritualmente, ma ormai per molti soltanto venire in chiesa è un pericolo, la domenica siamo come in una catacomba, abbiamo paura di attentati». Dietro Gargaresh c’è il muro bianco dell’ospedale Al Razi, l’unico ospedale psichiatrico del paese insieme a una clinica di Misurata. I medici sono discreti, evitano di farci incontrare i pazienti (ci sono 250 letti nell’ospedale), ma raccontano: «Dalla fine della guerra è stato un crescendo», dice il dottor Salah Mohammed. «Abbiamo avuto una esplosione di casi di disordine della personalità, di depressioni acute e maniacali. Poi ci sono le tossicodipendenze, da eroina e da farmaci, soprattutto il Tramadol, un antidolorifico che i combattenti avevano iniziato a prendere per le loro ferite e che adesso si procurano di contrabbando».

Tre settimane fa hanno scoperto un peschereccio pronto a scaricare a Tripoli tre tonnellate di Tramadol in arrivo dall’Egitto. «Ma i casi di stress post traumatico di chi ha combattutto hanno invaso le famiglie e sono aumentate liti e violenze, con le donne sempre più fragili in un contesto chiuso e conservatore come quello della famiglia libica», spiega la dottoressa Hanan. «Anche se i mariti sono da compatire perché soffrono di disturbi complessi, alla fine scaricano con violenza sulle mogli le loro patologie». La sera i ristoranti sul lungomare di Tripoli verso Tarhuna sono sempre aperti. Al piano terra del “Barracuda” siedono gli uomini da soli, sopra le famiglie e le donne in compagnia tra loro. Il pesce costa sempre di più, è quasi inavvicinabile per le famiglie “normali”. «Molti pescherecci sono passati al contrabbando, di qualsiasi genere: uomini, medicine, carburante, tutto fuorché andare a pescare », ci spiegano. Una cena per tre con calamari, gamberoni e due orate costa 170 dinari, più di cento euro. Per Tripoli è davvero molto. Per una città che sogna di uscire dalla guerra è senza prezzo.

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