Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 05/04/2016, a pag. 47, con il titolo "Se il Talmud non risponde hai sbagliato la domanda", l'intervista di Susanna Nirenstein a Adin Steinsaltz, massimo esperto di Talmud al mondo.
Susanna Nirenstein
Adin Steinsaltz
Arriva direttamente da Tel Aviv al nostro appuntamento romano, piccolo, vestito in modo caotico di nero come gli ebrei ortodossi ashkenaziti, incorniciato dai capelli e la barba bianca disordinati, con una voce sottile, musicale, come abituata al ragionamento continuo tra sé e sé, e tra sé e i massimi sistemi. Il rabbino Adin Steinsaltz, massimo esperto di Talmud nel mondo (ieri un’edizione di “Parole semplici” è uscita a Taiwan e pochi giorni fa in Iran!), il suo traduttore per eccellenza, nonostante i suoi ottanta anni ha sorrisi e sguardi che tradiscono tutta la forza vitale, mentale, incantano. È qui perché deve presentare oggi all’Accademia dei Lincei il volume del Talmud il Trattato di Rosh haShanà tradotto in italiano, il primo dell’intera opera che sarà pubblicata dalla Giuntina, un’impresa mastodontica (le pagine in tutto sono 5422, i trattati 36, gli ordini 6) voluta dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, presidente del Comitato in cui sono parte importante anche le istituzioni italiane. Guarda un foglio dove abbiamo appuntato le nostre domande, e dice subito, ridacchiando, che non è disposto a stare dieci ore insieme a noi. È stanco? «Io non sono mai stanco» risponde. E prende una sua strada, molto personale, un diluvio di parole, per rispondere (estrapoliamo) innanzitutto che il Talmud Babilonese (ce n’è anche uno di Gerusalemme, meno ampio e frequentato) sunteggia la legge ebraica orale (la Mishnà, ovvero il codice normativo trasmesso sul Sinai a Mosè in ebraico ma non per scritto) e il suo commento redatto in aramaico-ebraico, una sintesi delle discussioni dei maestri, i chakhamim, sulla Mishnà stessa, perché il Talmud è l’unico libro sacro al mondo che non solo permette ma incoraggia ogni domanda, ogni dubbio, e accetta, anzi sprona, risposte discordanti, e le riporta pur cercando infine elementi in comune che non sempre arrivano.
Va bene, ma perché tradurlo, non perderemo parte del significato, i riferimenti all’uso della stessa parola in altri testi, o il suo valore numerico? Lei è stato il primo a trasporlo tutto in ebraico, ed è stato anche molto criticato. «Conosco una bella frase in italiano, “il traduttore è un po’ un traditore”, ed è vero. Ma è alla base del rapporto tra le civiltà. Ogni traduzione perde qualcosa, ma se vuoi trasportarla nel mondo devi rischiare, anche se nel trasmetterla va via un po’ di bellezza, un po’ di sostanza. Rendere così accessibile il Talmud è un atto, un gesto che in qualche modo cambia una tradizione per cui, specie ai tempi della trasmissione orale, lo studio era ristretto a una cerchia limitata, al maestro e ai suoi discepoli. Qualcuno pensa ancora che sia questa la condizione migliore. Ma io no, e non solo io evidentemente. Ho letto una Divina Commedia in ebraico, e sicuramente non era la stessa cosa. È più facile tradurre la fisica, la matematica. Ed è ancor più facile farlo se mettiamo mano a un testo che appartiene alla stessa epoca e alla stessa cultura della lingua in cui lo trasponiamo, che so, un romanzo italiano in un romanzo francese del Novecento. Ma per i libri antichi e per di più provenienti da una tradizione diversa, sono guai. Inoltre il linguaggio del Talmud non era nemmeno allora comune, si tratta di una sorta di gergo tra aramaico e ebraico. Spero che l’italiano usato in questa opera comunque renda l’idea della sua bellezza».
Ma perché in italiano poi, una lingua parlata da pochi milioni di persone, un paese con una comunità ebraica piccolissima? È un testo universale? Cosa ci cercherà un non ebreo? «Certo sarebbe meglio che uno studiasse la lingua e la cultura ebraica per affrontarlo. Ma chi ha tutto quel tempo? Vede, il Talmud è stato per secoli un grande mistero, la gente era sicura che dentro ci fossero dei segreti oscuri. Spesso lo prendevano e lo davano alle fiamme, dall’antichità giù giù fino ai nazisti, lo distruggevano: pensavano che attraverso quelle pagine gli ebrei mandassero non si sa quali maledizioni o evocassero strani poteri. Era più una leggenda che un fatto. E i miti, i pregiudizi, continuano ancora. In Italia spesso ad esempio si pensa che gli ebrei siano mezzo milione invece dei 35.000 che sono! Noi ora prendiamo la nostra scatola chiusa e l’apriamo: che guardino dentro. Se la Bibbia è la prima pietra del giudaismo, il Talmud ne è il pilastro centrale: leggano, non ci sono arcani. Al massimo potranno dire che siamo pazzi».
Qual è la caratteristica principale del Talmud, invece? «La sua essenza ha trasmesso al mondo il grande messaggio del pensiero dialettico. E il mondo ne ha un grande bisogno perché traversa un periodo di follia, di estremi. Occorre guardare, capire, porre e porsi molte domande. Tentare di rispondere. Tutto il Talmud è fatto di dibattito e pensiero, su qualsiasi argomento, scienza, uomini, donne, astronomia, economia, agricoltura, persino fecondazione artificiale... ».
Lei ha scritto che nel Talmud ci sono soggetti che è impossibile veder accadere nella realtà, come allora probabilmente era la fecondazione artificiale. «È un modo meraviglioso per imparare a fare le domande migliori. Su tutto. La scienza ti risponderà sulla differenza tra la luce rossa e la luce blu, ma i veri punti interrogativi riguardano cosa c’è tra un uomo e un altro. La matematica non se ne occupa. Il Talmud dibatte di cosa è fatta la vita. E ogni allievo ebreo apprende come porre non una ma cento questioni, e cerca una risposta. Anche ai quesiti più assurdi, tipo immaginare un oggetto in quarta dimensione, e in quinta e magari in sesta. La teoria fisica delle stringhe molti secoli dopo ne ha parlato».
Un procedere per paradossi? «No, una visione del mondo, il Talmud è vivo, è capace come un artista di scolpire nel marmo una fontana con l’acqua scrosciante. Penseresti che è impossibile e invece lo è. Studiare il Talmud, è come stare seduti a un tavolo lunghissimo e discutere con Mosè, i profeti, i maggiori maestri, e me, e lei. Al presente».
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