Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 04/04/2016, a pag. 15, con il titolo "Cresce il business della moda col velo, la Francia si divide: 'E' una schiavitù' ", l'analisi di Simone Marchetti.
«Le donne che oggi scelgono il velo sono come i negri americani che ieri erano favorevoli alla schiavitù». Sono parole del Ministro per la famiglia francese Laurence Rossignol che andrebbero stampate a caratteri cubitali e diffuse in tutta Europa. I nostri complimenti al Ministro e a un'intellettuale femminista e profondamente democratica come Elisabeth Badinter.
Ecco l'articolo:
Simone Marchetti
Elisabeth Badinter
«Le donne che oggi scelgono il velo sono come i negri americani che ieri erano favorevoli alla schiavitù». Con questa frase choc Laurence Rossignol, ministro francese per la Famiglia, l’infanzia e i diritti delle donne, ha riacceso la polemica in Francia intorno all’utilizzo del velo femminile. La dichiarazione, rilasciata durante una video intervista lo scorso venerdì, è arrivata a commento della scelta di molti marchi di moda occidentali di produrre, pubblicizzare e vendere collezioni di abiti destinati a coprire il corpo delle donne, come richiesto dalla religione islamica. In poche ore, la discussione ha invaso la rete e i giornali. Sul sito Change.org è stata firmata una petizione contro il ministro che ha raccolto più di 30mila firme. E la voce autorevole di Elisabeth Badinter, scrittrice femminista e filosofa francese, si è schierata con Rossignol sostenendo che «la frase pronunciata resta infelice, soprattutto nel riferirsi ai ‘negri’, ma il suo significato più profondo è perfettamente corretto».
Laurence Rossignol, ministro francese per la Famiglia
Sul tema del velo, la Francia si divide da tempo, in nome della laicità che è parte fondamentale dell’identità di questo paese: ma la discussione sulla moda islamica in realtà non riguarda solo questo paese. Al contrario: è la punta dell’iceberg di un fenomeno economico dai numeri impressionanti. È stato denominato ‘ Modest fashion’: si tratta della richiesta di abiti lunghi, veli e tuniche per coprire le forme femminili, un business che secondo il Financial Times varrebbe 230 miliardi di dollari. Sulla cifra esatta, in realtà, esistono stime anche più elevate: nel convegno Turin modest fashion roundtable, avvenuto a Torino nel 2015, si è parlato di un giro d’affari di 300 miliardi di dollari nel 2014 che arriverà a circa 484 miliardi nel 2019. La richiesta, poi, non verrebbe soltanto da paesi come Turchia, Emirati Arabi, Indonesia, Iran, Arabia Saudita e Nigeria. Secondo l’analisi, in Francia, Inghilterra e Germania la domanda varrebbe già più di 25 miliardi di dollari. Del resto, negli ultimi anni sono molte le griffe del fashion system, dal segmento del lusso a quello del largo consumo, ad aver prima intuito e poi cavalcato questa tendenza.
Il primo caso eclatante, nel 2014, è stato quello di DKNY, marchio americano che creò una collezione di 12 look da donna destinati al periodo del Ramadan. Nel 2015, invece, sono stati due i casi eccellenti: la catena giapponese Uniqlo che ha realizzato una linea ‘pudica’ con la designer inglese Hana Tajima; e il brand spagnolo Mango che ha debuttato con una Ramadan Collection dai prezzi contenuti. Dal canto suo, invece, la multinazionale svedese H&M è finita sotto il mirino delle critiche per aver arruolato in un video la modella Mariah Idrissi mentre indossa l’hijab, il velo delle donne musulmane. Due, infine, gli ultimi esempi illustri arrivati nel 2016: da una parte la collezione Abaya (nome che si riferisce al lungo camicione che ricopre il corpo) lanciata da Dolce&Gabbana all’inizio di gennaio; dall’altra la linea di tute coprenti, vendute come costumi da bagno femminili, voluta dai grandi magazzini inglesi Marks&Spencer.
L’importanza di questo mercato, poi, sembra rinforzarsi per altri due fattori. Il primo è rappresentato dalle nuove acquirenti che, secondo gli studi del Global Islamic Report, rappresentano la seconda generazione di donne musulmane che vivono in Europa, tornate a essere conservatrici in fatto di costumi. A differenza delle loro madri, sarebbero molto propense alla spesa e all’acquisto di questo tipo di beni. Il secondo fattore è invece strutturale: nel mondo islamico, si sta facendo largo una sorta di Camera nazionale della moda per tutelare interessi, imprenditoria e investimenti legati alla Modest fashion. Si tratta dell’Islamic Fashion& Design Council, istituzione che ha uffici in molti paesi e che si occupa di raggruppare e sponsorizzare i designer, gli imprenditori dedicati alla produzione di questo tipo di abbigliamento. Da molto tempo pubblica riviste patinate e contenuti digitali desinati non solo alle consumatrici, ma anche ai consumatori. Un dato che dimostra che il dibattito sul tema in futuro è destinato ad allargarsi: e non solo in Francia.
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