Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 02/04/2016, a pag.IV, con il titolo " Terra incompresa" l'analisi di Antonio Donno sui rapporti Usa/Israele/paesi arabi.
Gli arabi bruciano le bandiere Usa e Israele, ma a Obama non importa
Entrare nel merito del profondo significato delle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti, sia dal punto di vista politico sia culturale, vuol dire anche comprendere il ruolo che Washington ha giocato in una regione strategicamente cruciale come il medio oriente. Potrebbe sembrare, questa, una constatazione ovvia, ma non lo è, se si tiene conto del fatto che, dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla nascita di Israele nel 1948, diverse Amministrazioni americane hanno ritenuto erroneamente che allentare le relazioni con Israele avrebbe significato una maggiore capacità da parte degli Stati Uniti di entrare in sintonia con il mondo arabo della regione. Il calcolo si è sempre rivelato sbagliato, con grave danno per la stessa Washington, come dimostra con grande capacità di analisi Dennis Ross nel suo recente “Doomed to Succeed: The U.S.-Israel Relationship from Truman to Obama”. Già autore, nel 2004, di “The Missing Peace”, sul fallimento degli accordi di pace tra israeliani e palestinesi – in cui Ross, senza esitazioni, attribuiva la responsabilità ad Arafat – oggi Ross riesamina l’intera questione puntualizzando che “troppo spesso i nostri politici non hanno compreso la realtà di fondo della regione e sono sembrati incapaci o non disposti ad imparare le conseguenti lezioni”. Ross è un profondo conoscitore del medio oriente, avendo svolto sotto vari presidenti ruoli di primo piano anche come diretto inviato presidenziale nella regione. Egli imputa gli errori delle Amministrazioni americane non solo alla presunzione di molti presidenti – spesso convinti che “il mondo fosse cambiato senza che i loro predecessori se ne fossero resi conto” e, dunque, preoccupati di modificarlo, molto spesso fallendo, come ha ironicamente sostenuto Stephen Sestanovich nel suo “Maximalist: America in the World from Truman to Obama” (2014) – ma soprattutto, in questo caso, alla fallace e sempre indimostrata certezza che prendere le distanze da Israele avrebbe significato assicurarsi le simpatie del mondo arabo, a scapito dell’Unione sovietica e, di conseguenza, venire a capo una buona volta del ginepraio mediorientale a favore degli Stati Uniti. Questa impostazione politica non solo è stata un fallimento, ma, addirittura, ha provocato conseguenze sempre più pesanti per gli interessi di Washington nella regione, sul piano della sicurezza nazionale, a vantaggio, ovviamente, di Mosca. Solo due presidenti americani si sono resi conto di questa realtà: un democratico, Bill Clinton, e un repubblicano, George W. Bush. Vediamo perché. Tutto nacque ai tempi di Truman, quando due esponenti di primo piano della sua amministrazione, Loy Henderson e George Kennan, affermarono senz’altro che fosse opportuno congelare i rapporti con il neo-stato di Israele, perché altrimenti gli Stati Uniti non avrebbero avuto il petrolio arabo; che gli arabi sarebbero finiti nelle braccia di Mosca; e che gli Stati Uniti avrebbero dovuto versare il sangue dei propri figli per difendere un paese lontano e inutile per gli interessi americani. Invece, si verificò il contrario: il petrolio arabo fluì tranquillamente verso le compagnie americane; solo alcuni dei paesi arabi si avvicinarono opportunisticamente a Mosca (Egitto, Siria, Iraq, dando vita a quella ridicola finzione che fu il “socialismo arabo”), di Antonio Donno mentre Libano, Giordania, Arabia Saudita e monarchie del Golfo avevano tutto l’interesse a smerciare il proprio petrolio. L’Iran era un solido alleato di Washington. E quando si dimostrò che “le loro posizioni (di Marshall, Henderson e Kennan, ndr) erano erronee, essi continuarono a sostenerle”, scrive Ross. Il decennio di Eisenhower e di John F. Dulles ha rappresentato forse il diapason delle illusioni americane sul medio oriente. Eisenhower e il suo segretario di stato impostarono la propria politica mediorientale sull’isolamento di Israele e sull’inseguimento dei desideri arabi. Ma ormai Nasser era all’apogeo della propria potenza, aveva Mosca a difendergli le spalle e agitava la distruzione di Israele per mano egiziana come il climax della sua potenza ed egemonia sul mondo arabo. L’amministrazione repubblicana, afferma Ross, non si rese conto che l’isolamento di Israele da parte americana non migliorava affatto le relazioni di Washington con Nasser e che gli altri stati arabi detestavano il corteggiamento americano dell’Egitto perché lo consideravano una sorta di via libera per le ambizioni del raìs egiziano di dominio su tutto il mondo arabo. La successiva condanna dell’operazione anglo-francese a Suez non modificò per nulla l’atteggiamento di Nasser verso gli Stati Uniti, considerati comunque una potenza colonialista, e via dicendo. In sostanza, la solitudine di Israele decretata da Washington e il forsennato corteggiamento di Nasser produssero il contrario di ciò che si prefiggevano gli americani: il posizionamento degli Stati Uniti come protettori dell’intero mondo arabo a scapito delle ambizioni sovietiche. Ross così conclude: “Eisenhower fallì nella gran parte degli obiettivi che si era prefisso per il medio oriente. Non fu in grado di tenere i sovietici fuori dall’area. L’influenza americana e occidentale s’indebolì. Il numero degli amici degli americani nell’area declinò. (…) Infine, corteggiare gli arabi mettendo all’angolo Israele non ci recò alcun beneficio”. Le due successive presidenze, di Kennedy e di Johnson, scrive Ross, non modificarono nella sostanza l’andazzo americano nella regione e l’atteggiamento politico verso Israele, se non nella consapevolezza dei due presidenti della profonda consonanza culturale tra Stati Uniti e Israele. Ma, al di là dei sentimenti personali, “mentre Kennedy credeva nel cambiamento che egli stava introducendo (nell’approccio a Israele, ndr), era nondimeno consapevole del prezzo che avrebbe dovuto pagare con gli arabi”. Simpatia più profonda, ma nulla di concreto sul piano della politica. Insomma, si era alle solite. Di più: Dean Rusk, segretario di Stato sia con Kennedy sia con Johnson, non nutriva alcuna simpatia per Israele, in questo modo ponendosi nella scia delle posizioni dei dipartimenti di stato che si erano succeduti sino a quel momento, a partire dalla nascita dello stato ebraico. In occasione della discussione sul possesso dell’arma nucleare da parte di Israele, Rusk fu drastico. Nelle sue memorie scrive: “Ripetutamente sollecitammo gli israeliani a non essere i primi a introdurre le armi nucleari nel medio oriente. Se lo avessero fatto, dicemmo loro che avrebbero perduto l’amicizia degli Stati Uniti e la protezione del nostro ombrello atomico”. In realtà, non vi fu alcuna proliferazione nucleare nella regione, per non dire dell’amicizia americana, che fino a quel momento aveva stentato a manifestarsi nei confronti di Israele. Quanto all’ombrello atomico americano a protezione di Israele, non vi era stata mai alcuna assicurazione in questo senso. Così, quando Abba Eban, ambasciatore israeliano a Washington, dopo un incontro con Rusk, si accomiatò, disse sarcasticamente: “Non saremo i primi (…), ma non vogliamo essere neppure i secondi!”. Sarebbe stato troppo tardi, e Rusk lo sapeva. Sia Kennedy sia Johnson fornirono armamenti a Israele in una misura contenuta, mostrarono simpatia verso lo stato ebraico, ma furono sempre restii a compiere passi decisivi verso i governi israeliani, perché bloccati dall’eterna paura di perdere l’alleanza dei paesi arabi. Ma, come si è visto, i paesi arabi radicali (Egitto, Siria, Iraq) scelsero la strada di Mosca indipendentemente dall’atteggiamento di Washington verso Gerusalemme; eppure, questa consapevolezza, sottolinea Ross, continuò a sfuggire alle amministrazioni americane. Più gli Stati Uniti si allontanavano da Israele, più i paesi arabi radicali si avvicinavano a Mosca: una situazione grottesca. Anzi, si deve aggiungere, Washington ebbe in regalo da Israele la splendida vittoria nella guerra del 1967, benché Johnson tremasse all’idea che lo stato ebraico reagisse all’accerchiamento degli arabi e ai loro preparativi di guerra. La strabiliante vittoria di Israele e la sconfitta bruciante di Egitto e Siria, prima nel 1967, poi nel 1973, consegnarono agli Stati Uniti un’egemonia pressoché completa sul medio oriente. Grazie a Israele. Come afferma Ross, l’autostima di Israele s’ingigantì, e a ragione: “Gli israeliani ebbero la consapevolezza che gli impegni provenienti dall’esterno non avrebbero mai potuto sostituire la capacità di Israele di agire per proprio conto”. Con Nixon e Kissinger, le cose assunsero un risvolto nuovo e per certi versi imprevisto. Benché, nei primi tempi, Nixon, alla stregua dei suoi predecessori, abbia seguito il solito trend – non sbilanciarsi troppo a favore di Israele per non perdere il mondo arabo a favore di Mosca – la vittoria del 1973 portò Kissinger a suggerire a Nixon la seguente politica per il medio oriente: non fare nulla, non asfissiare Israele sul problema delle concessioni, non intavolare negoziati con gli arabi. Kissinger, a quel punto, aveva capito che Israele doveva essere lasciato in pace, finalmente con il benestare di Washington. Ma siamo ancora in un momento che potremmo definire, con una frase da prima guerra mondiale, “né aderire né sabotare”. Di nuovo, Ross è estremamente chiaro: “Prendere le distanze da Israele nei primi due anni dell’amministrazione una volta di più non ci favorì in nulla con quegli arabi con i quali tentavamo di ristabilire i contatti”. Superata la fase di Carter, negativa da tutti i punti di vista per i rapporti con Israele (nonostante l’accordo di pace tra Begin e Sadat), con Reagan, invece, Washington e Gerusalemme cominciarono a relazionarsi più frequentemente, grazie alla personale simpatia del presidente americano verso lo stato ebraico. “A differenza dei suoi predecessori – scrive Ross – Reagan non considerò una contraddizione il cooperare con Israele sul piano della nostra sicurezza nazionale e l’avere buone relazioni con gli arabi”. Cosa facile a dirsi, ma non a farsi. In effetti, come si è detto all’inizio, fu solo con Clinton e Bush figlio che le relazioni tra i due paesi non furono subordinate alla dittatura dell’amicizia araba. Clinton si spese fino allo spasimo per ottenere un accordo tra Barak e Arafat, ma dovette arrendersi di fronte al continuo no del leader palestinese. La sua delusione, alla fine del suo mandato, fu profonda. Con Bush figlio i legami tra i due paesi si rafforzarono: “Bush intuì che Israele aveva di fronte le stesse minacce che avevano gli Stati Uniti. Israele era il nostro amico e aveva bisogno del nostro aiuto”, scrive Ross. L’analisi di Ross sembra giungere alla seguente conclusione: la storia ha dimostrato che se gli Stati Uniti si allontanano da Israele, il mondo arabo chiede ancora di più e, negli anni della guerra fredda, si allea con il comunismo sovietico. Ma, se gli Stati Uniti s’impegnano per trovare un accordo tra le due parti, come nel caso di Clinton, il mondo arabo, anche in questo caso, chiede di più. Arafat docet. Queste le parole di Ross: “Tutte le amministrazioni che hanno preso le distanze da Israele hanno avuto come esito un aumento delle richieste da parte degli arabi, e non invece un contraccambio dai leader arabi in risposta all’allontanamento americano da Israele”. L’unico modo perché gli arabi siano pienamente soddisfatti è quando Israele sarà cancellato dalla carta geografica. Ma è una speranza che porterà solo infinite frustrazioni al mondo islamico.
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/ 5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante