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La Repubblica Rassegna Stampa
01.04.2016 Addio a Imre Kértesz, da Auschwitz al Nobel
Commento di Susanna Nirenstein

Testata: La Repubblica
Data: 01 aprile 2016
Pagina: 41
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «Addio al Nobel Imre Kértesz, testimone con il sorriso»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 01/04/2016, a pag. 41, con il titolo "Addio al Nobel Imre Kértesz, testimone con il sorriso", il commento di Susanna Nirenstein.

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Susanna Nirenstein

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Imre Kértesz

«Proseguirò la mia vita che non è proseguibile» scriveva Imre Kértesz, scomparso ieri a Budapest a 86 anni, nell’ultima pagina di “Essere senza destino”. Nonostante il buio dei massacri nazifascisti dentro cui è passato, nonostante non ci sia risarcimento possibile al lager, salvato dal caso, appena ha potuto, specie dopo la caduta del regime comunista che l’ha oppresso e emarginato, ha vissuto con ironia e sorrisi, persino con le civetterie dei vecchi intellettuali mitteleuropei, cappelli borsalino e sciarpe chiare per poi conquistare il Premio Nobel per la Letteratura nel 2002. Era forte perché sentiva dagli anni ‘60 di voler testimoniare Auschwitz dove era stato rinchiuso a 14 anni, deportato in mezzo al ciclone che mise a morte oltre 400.000 ebrei negli ultimi mesi della guerra, e liberato a Buchenwald nel 1945. Testimoniare la Shoah, ma non solo, dire piuttosto che il nazismo, l’annientamento degli ebrei, e le altre dittature del Novecento con i loro gulag e campi di rieducazione, facevano interamente parte della nostra cultura, come le nostre lingue, la musica, la letteratura e che di questo l’Europa doveva rendere conto. Così come nel terzo millennio si affannava invece a dire, aggiornando il capitolo dei fondamentalismi, che il maggior compito del Vecchio Continente era riconoscere il pericolo del terrorismo, un interlocutore incapace di mediazioni, disinteressato ad averne, e combatterlo senza paura.

Tra i suoi numerosi romanzi e saggi, interamente dedicati alla Shoah e ai totalitarismi, il più speciale, accostato ai libri di Primo Levi e di Amery, è senz’altro Essere senza destino scritto in dieci anni (1975, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel ‘99, da lui sceneggiato per un film con la regia di Lajos Koltai nel 2005 ). È speciale perché racconta fuori da ogni retorica, con gli occhi di un ragazzino innocente, l’incontro con la macchina della morte. Con Kertész e il suo personaggio del tutto autobiografico siamo passo per passo, nefasta novità dopo nefasta novità, dentro l’incubo reale di ogni giornata in modo crudo, diretto, senza giri di parole, lo sporco, la fame, l’incontro difficile con i compagni di sventura che a volte, spesso, scompaiono, i mal di pancia, i rari, eroici, episodi di solidarietà di un tozzo di pane condiviso, e l’imperativo di sopravvivere, “non lasciarsi andare”, non diventare quelle “cornacchie infreddolite” che si chiedono se “valga ancora la pena”. Lui va avanti e impara osservando alcune regole fondamentali: «la cosa più importante è lavarsi, altrettanto importante è suddividere la razione con parsimonia – non sapendo se ne seguirà un’altra...; durante l’appello o quando si marcia in colonna l’unico luogo sicuro è sempre e soltanto il centro; durante la distribuzione della minestra non si cerchi di stare davanti».

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Essere senza destino
, Feltrinelli ed.

La sua è la cronaca naturale e surreale di un giovane che non conosce le coordinate del campo di sterminio e dunque l’attraversa misurandolo con piccoli gesti tesi a superare il nuovo ostacolo, che sia fame, febbre, freddo, infezione; e anche se la morte gli respira ogni giorno addosso, prova istanti di felicità nei momenti in cui capisce di essere ancora vivo. L’io narrante non sa dove si trova, noi sì, e questo crea uno strano meccanismo di suspense nonostante la storia sia nota. Un punto di vista geniale, e libero. Nato da ebrei modesti e religiosi nel ‘29, ha capito, per quanto fosse lontano dall’ebraismo, il senso della sua identità dopo la Shoah, quando tornò in patria, ritrovò come un tempo un antisemitismo pervasivo e vide come il paese non avesse nessuna voglia di affrontare la corresponsabilità nell’uccisione di quasi mezzo milione di ebrei tra il ‘44 e il ‘45.

Comunque si dette da fare. Fece il giornalista subito licenziato, fece parte dell’intellighenzia di opposizione, parteggiò per la rivolta del ‘56, trovò umili lavoretti e iniziò a tradurre Nietzsche, Freud, Wittgenstein, Canetti in un piccolissimo appartamento sul Danubio. L’interessava il tema dell’individuo immerso nel totalitarismo, quando sono gli altri a decidere il tuo fato, nel nazismo così come nel comunismo. Tanto che spesso ha voluto chiarire come nei suoi libri sulla Shoah parlasse anche del regime di János Kádár, il dittatore che governò l’Ungheria fino a poco dopo la caduta del Muro.

Nel ‘75 riuscì a pubblicare Essere senza destino, un libro quasi ignorato, e a vivere traducendo e scrivendo romanzi poco celebrati. Quando però arrivò il Nobel, nel 2002, il mondo si accorse di lui. Caustico, nel suo discorso a Stoccolma disse «Non è facile essere un’eccezione e pensare a quanti sono morti senza avere visto la misericordia. Mentre ci trasportavano nei vagoni non ci dicevano che il contratto prevedeva, alla fine, il premio Nobel. Ma la vita è assurda e quest’assurdo bisogna saperlo accettare: accettare che ti vogliano ammazzare e poi che ci sia gente che abbia voglia di ascoltare in che modo ti volevano ammazzare».

Uscirono anche all’estero i tanti libri che aveva scritto, si permise di vivere per alcuni anni a Berlino, finalmente senza ristrettezze, ricevendo visite e giornalisti in quello che considerava il suo ufficio, il bar dell’Hotel Kempinski, sul Ku’damm, gli Champs-Élysées della grande città riunificata, che lasciò pochi anni fa in pieno Parkinson. Nel frattempo arrivarono anche in Italia i suoi titoli, Fiasco, Kaddish per il bambino non nato, Liquidazione (storia di un sopravvissuto che arrivato ai 50 anni si suicida), Verbale di polizia, Storia poliziesca, Diario dalla galera, Dossier K, Il secolo infelice... Tutti libri che confermarono la sua fama. A settembre Bompiani pubblicherà L’ultima locanda. Sì, con il Nobel, a dispetto dei fantasmi, la vita migliorò. Peccato che in Ungheria si lamentarono in molti. Dissero: perché premiare un ebreo e non un vero ungherese?

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