Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 31/03/2016, a pag. 12, con il titolo "Hollande cede sulla revoca della cittadinanza", il commento di Stefano Montefiori; dal FOGLIO, a pag. 1-4, con il titolo "La vera lezione d'Israele contro il terrore? Credere in sé e fare la prima mossa", l'analisi di Mario Mori.
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Stefano Montefiori: "Hollande cede sulla revoca della cittadinanza"
Stefano Montefiori
Passeggeri in attesa all'aereoporto Ben Gurion di Tel Aviv, il più sicuro del mondo
È uno dei momenti più difficili per François Hollande, che pure ne ha conosciuti tanti dal suo arrivo all’Eliseo quasi quattro anni fa. Il presidente della Repubblica ha annunciato ieri che abbandona il progetto di riforma costituzionale e in particolare la revoca della cittadinanza francese per i terroristi, una misura al cuore del dibattito pubblico dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi. Alla fine di quattro mesi di discussioni e 63 ore di dibattito parlamentare, non se ne fa niente. Le conseguenze pratiche sono relative, la riforma era soprattutto «simbolica», come aveva riconosciuto il primo ministro Manuel Valls. Ma il fallimento politico è disastroso, e arriva nel momento in cui la popolarità del presidente è tornata, secondo i sondaggi, al consueto, bassissimo livello. Hollande aveva annunciato di voler riformare la Costituzione durante il discorso solenne tenuto, il 16 novembre 2015, davanti all’Assemblea nazionale e al Senato riuniti eccezionalmente in Congresso a Versailles, tre giorni dopo i 130 morti del Bataclan, dei ristoranti e dello Stade de France.
Il Paese era attraversato da una emozione enorme, «siamo in guerra», proclamò il presidente, che a conferma dell’eccezionalità del momento propose alcune misure in passato invocate dalla destra. Il presidente socialista Hollande chiedeva di inscrivere nella Costituzione lo stato di emergenza, e la possibilità di togliere la cittadinanza ai condannati per terrorismo. Cercava l’unità nazionale, puntava a raccogliere su di se, comandante in capo delle forze armate, il consenso di tutte le forze politiche. Il risultato è che la destra non è stata al gioco e ha boicottato il voto del progetto, e la sinistra ha contestato il presidente, accusandolo di svendere i suoi valori a favore di una svolta autoritaria: al posto dell’unità nazionale Hollande ha ottenuto la divisione, anche nel suo stesso partito. Ma che cosa c’era di così straziante nell’idea di togliere la cittadinanza francese a terroristi islamici capaci di uccidere connazionali innocenti? Il fatto è che si è ben presto creato un pasticcio giuridico. Il diritto internazionale vieta di creare apolidi, cioè persone prive di cittadinanza. La misura avrebbe riguardato quindi (nel testo approvato al Senato) solo i bi-nazionali. Si creavano così inevitabilmente due categorie di cittadini, puniti in due modi diversi a parità di crimine: i francesi di «serie A» non avrebbero potuto perdere la nazionalità mentre quelli di «serie B», per esempio francesi e algerini, francesi e marocchini ecc., sì.
Contro questa discriminazione si era schierata la sindaca socialista di Parigi, Anne Hidalgo, il popolare ministro dell’Economia Emmanuel Macron e tempo addietro — quando non sospettava di tornare al governo — l’ex premier Jean-Marc Ayrault oggi ministro degli Esteri. A fine gennaio si era dimessa per protesta Christiane Taubira, la ministra della Giustizia ultima rappresentante ancora al governo dell’ala sinistra del partito. Taubira ieri non ha nascosto la soddisfazione: «Adesso che si ferma la parentesi di un doloroso smarrimento, che la Costituzione resta la custode dei nostri valori, (...), adesso torniamo liberi insieme». Il progetto ritirato ieri da Hollande è riuscito a tormentare la Francia e a farla vacillare nei suoi principi, senza dare al Paese sicurezza in più. A livello europeo, mentre continuano le resistenze a una maggiore collaborazione tra intelligence e forze dell’ordine dei 28 Stati, si riunirà oggi a Bruxelles il comitato Ue per la sicurezza aerea. Allo studio il «modello israeliano», con controlli approfonditi all’ingresso degli aeroporti, ben prima dell’area del check-in.
IL FOGLIO - Mario Mori: "La vera lezione d'Israele contro il terrore? Credere in sé e fare la prima mossa"
Mario Mori
Controlli di sicurezza all'aereoporto Ben Gurion di Tel Aviv
Gli attacchi da parte del terrorismo di matrice islamista che ormai da quasi venti anni sono rivolti verso il mondo occidentale nel suo complesso e in particolare contro i paesi europei, sono stati presi in esame da varie tipologie di esperti alla ricerca delle motivazioni effettive, dei fini reali che si ripromettono e delle modalità per un loro concreto ed efficace contrasto. E’ scontato come più che sulle origini e sui fini, pur importanti, in questa fase critica sia impellente individuare gli strumenti idonei a contenerne la potenzialità, in attesa che le iniziative culturali volte anche all’integrazione, tanto sostenute da molti politici nazionali e non, facciano il loro ipotizzato effetto. Una valida soluzione di tipo operativo, quindi pratico, in questa fase è assolutamente necessaria, tenuto anche conto che il prolungarsi di uno stillicidio di attentati sempre più clamorosi e letali potrebbe dare vita, in risposta, a forme di reazione con sbocchi anche negativi su diritti dei singoli, già ora intaccati, ma anche sulla tenuta delle nostre istituzioni democratiche.
La storia, e in particolare quella europea, ne è piena e con esempi, anche recenti, che devono fare riflettere. A ogni nuovo attentato, oltre alle consuete polemiche su quello che si poteva fare e non si è fatto, sull’inefficienza della nostra azione di polizia e d’intelligence, sui segnali crescenti di pericolo sempre poi tranquillamente disattesi, tutti aspetti questi che hanno certamente motivazioni concrete ed effettive, ci si interroga su quali siano le modalità per contrastare efficacemente i nuclei del terrorismo islamista che purtroppo, e i più recenti fatti di Parigi e di Bruxelles lo dimostrano, abbiamo già in casa e sono costituiti da cittadini europei a pieno titolo come lo siamo noi. Si parla, quindi, di un maggiore coordinamento delle organizzazioni politiche comunitarie, della costituzione di nuove strutture europee quali un ministero per la Sicurezza, di organismi investigativi e giudiziari che subentrino alle istituzioni delle singole nazioni e svolgano forme di contrasto più puntuali perché condivise. Sono tutte soluzioni queste che teoricamente possono contribuire a migliorare la nostra risposta sul terreno, ma la semplice constatazione che poi, all’atto pratico, si faccia ben poco o nulla, sta a dimostrare che c’è ancora qualcosa che manca e rende praticamente inapplicabili tante teorie all’apparenza così necessarie e fondate su giuste considerazioni.
Accerchiamento e quinte colonne
Vale la pena allora di guardarsi attorno ed esaminare indirizzi e soluzioni adottati da altri paesi alle prese con gli stessi problemi. Forse l’esempio che più di ogni altro per noi calza e quindi può essere esaminato è quello rappresentato dallo stato di Israele. Certamente la sua situazione, dal punto di vista della consistenza e dell’effettiva pericolosità del fenomeno da contrastare, è senz’altro molto più delicata. Si consideri infatti che Israele è circondato da paesi almeno dichiaratamente tutti ostili; conta una popolazione effettiva numericamente molto inferiore rispetto ai propri vicini; l’esiguità del suo territorio dal punto di vista strategico ne aumenta in maniera consistente la vulnerabilità militare, e infine almeno un quinto dei suoi otto milioni circa di abitanti, di origine arabo-palestinese, non può essere considerato certamente favorevole al suo recente insediamento in quella terra. Cosa ha quindi di particolare questa nazione che dal 1948 fa fronte con successo ad attacchi sia di natura militare che politica ben più consistenti di quelli che noi oggi sosteniamo?
La forza dello stato di Israele è rappresentata dalla forte coesione culturale, linguistica e storica che consente a uomini e donne provenienti da tutte le parti del mondo, con stili di vita, esperienze e formazione affatto diverse, di ritrovarsi uniti in un paese da loro riconosciuto come il focolare comune e quindi meritevole di essere difeso a ogni costo. Dopo la costituzione del suo stato, Israele, oltre a una serie di guerre, ha dovuto fare fronte ad attacchi terroristici e rivolte – siamo oggi alla terza intifada – che hanno messo in difficoltà le sue istituzioni a opera di un’altra gente, quella palestinese, che rivendica il buon diritto di vivere su terre abitate da secoli. Ne sono derivate risposte che mirando al mantenimento del proprio modo di essere in più circostanze hanno superato i limiti dei canoni del lecito secondo il metro di giudizio europeo per analoghe situazioni.
Al di là delle valutazioni di carattere politico e di metodo, resta il fatto che il popolo israeliano si sente costantemente in guerra per la propria sopravvivenza che è stata tribolata nei secoli e antepone quindi questa battaglia a ogni altro valore proprio della cultura occidentale nella quale comunque si riconosce. Le sue istituzioni, in particolare quelle destinate al mantenimento della sicurezza, quindi Forze armate, polizia e intelligence, riescono a sviluppare un’azione coordinata che trova la logica spiegazione nel fatto che ogni giorno queste strutture sanno di combattere per la sopravvivenza nazionale e di fronte a questo bene, ritenuto costantemente in pericolo, non fanno sconti di nessun genere. In particolare i servizi di sicurezza, dall’inizio della loro esistenza, hanno adottato una metodologia operativa di tipo aggressivo che cioè va alla “ricerca” dell’avversario e non lo “aspetta”, così sfruttando in molte circostanze, oltre all’iniziativa, la sorpresa che deriva anche dalla scelta degli obiettivi e dei metodi su come attaccarlo. In tale modo, costituiti da parte dell’élite della nazione, supportati come sono da una tecnologia di assoluta avanguardia e da un potere politico sostanzialmente coeso sull’individuazione dei valori ritenuti irrinunciabili, a cominciare dai primi governi di David Ben Gurion e Golda Meir sino a quello attuale di Benjamin Netanyahu, ottengono risultati brillanti che servono a contenere efficacemente gli attacchi portati dall’interno e dall’esterno. Anche se, negli ultimi anni, sono sempre maggiori e differenziate le offese da fronteggiare, come la più recente “intifada dei coltelli” verso cui l’organizzazione di sicurezza israeliana sembra non trovare ancora rimedi adeguati. Resta però il fatto che Israele, anche con distinguo ideologici scontati tra le sue componenti politiche e intellettuali, rimane fermamente deciso a combattere la sua battaglia, cioè non pensa assolutamente di abdicare ai propri princìpi e in questa determinazione trova la sua forza.
Europa ancora in vantaggio sul terrore
Noi popoli europei non siamo in questa drammatica situazione perché tutti i parametri strategici da valutare rispetto alla situazione del momento ci sono ancora favorevoli. Questo vantaggio va solo mantenuto e fatto rispettare, contemperando le norme del nostro diritto con quelle dell’accoglienza verso chi ci chiede di essere accolto nel sistema di vita che noi ci siamo dati. Cosa c’è allora da tenere presente e da adottare nel modello proposto da Israele? In particolare quel senso di appartenenza e di condivisione degli elementi fondanti della cultura occidentale che dovrebbe specificatamente accomunare i paesi dell’Europa che trovano sostanziali difficoltà, invece, nell’individuare le basi irrinunciabili dalle quali, anche ricorrendo alla durezza necessaria, non si può transigere, pena il tramonto drammatico delle norme di civiltà che ci siamo dati.
Dobbiamo trovare cioè la forza di credere nella nostra storia e come Israele decidere di non abdicare, e se c’è qualche elemento della nostra compagine che non ci crede più, abbandonarlo per strada senza tentennamenti. Tanta, infatti, è attualmente la nostra superiorità tecnica e organizzativa rispetto alle componenti aggressive dell’integralismo islamico, forti solo di un fanatismo cieco e illogico, che contrastarne le aggressioni non costituisce un problema irresolubile. Dobbiamo però usare con razionalità le nostre forze e, in questa fase, principalmente, le istituzioni preposte alla sicurezza, impiegandole però in maniera proattiva, scegliendo cioè di assumere l’iniziativa e non attendere che gli altri continuino a riservarsi la prima mossa. La storia ci dimostra che, valgano per tutte le vicende dell’Impero di Roma, quando si assume la decisione di fermarsi e mettersi sulla difensiva, arroccarsi cioè dietro a quello che gli antichi chiamarono il limes, si sanziona anche in maniera ineluttabile l’inizio del nostro declino.
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