Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 30/03/2016, a pag. 1-14, con il titolo "Tra i demoni della Turchia che preme sull'Europa", l'analisi di Bernardo Valli.
Bernardo Valli
Un campo per profughi siriani in Turchia
NUMEROSI demoni, reali o immaginari, si addensano nella metropoli dei tanti sogni orientali. Ne vado a cercare alcuni, concreti, di quei demoni, nella lontana periferia dove il sole morbido e colorato non illumina i sofisticati minareti di Sultanahmet né la basilica di Santa Sofia, ma un quartiere popolare e popolato a Ovest della città. Dove i sogni possono diventare incubi. Ci vuole tempo e pazienza per arrivare a Esenler, dove Recep Tayyip Erdogan non ha avuto il tempo o non intende costruire i grattacieli che ha disseminato altrove, sul Corno d’Oro, la sponda europea del Bosforo. In quell’angolo di Istanbul, dove non arriva neppure il più curioso dei turisti, le case sono basse, di un bianco sporco, e il fondo delle strade sfondate. Ma i migranti siriani, sfuggiti alla guerra con quel che resta delle loro famiglie, rendono il traffico tanto intenso e animato, al limite di una nevrosi di massa, da far dimenticare la povertà e mettere in risalto l’ansia quasi palpabile.
LA SENTI nella folla. La vedi negli sguardi. Lampeggia come un faro in un mare di smarrimento. Ma alla Human Rights Dream Foundation, che fa quel che può per aiutare i nuovi arrivati, mi dicono che la rassegnazione non è il sentimento dominante. Gli uomini siriani si danno da fare per trovare una moglie e i ragazzi accettano con slancio il lavoro nero, con mezzo stipendio, offerto da imprenditori e artigiani. Non mancano i trafficanti di droghe leggere, le bande di piccoli ladri, e le prostitute tra le donne (alcune delle quali) violentate durante la fuga dalla Siria. L’ondata di migranti abbattutasi sul quartiere sconvolge la già difficile esistenza degli abitanti turchi di Esenler e solleva una protesta sempre più estesa, che comincia a inquinare la solidarietà umana iniziale. Dei tre milioni di profughi, in larga parte siriani, arrivati in Turchia, cinquecentomila sono nella grande periferia di Istanbul. Ed è anche tra di loro che le autorità sceglieranno quelli destinati all’Europa, in cambio degli espulsi dall’Europa. Il baratto è riassumibile in “siriano contro siriano”. Un scambio imperfetto perché quelli autorizzati a raggiungere le coste europee, cioè le isole greche, non saranno molti: settantadue mila secondo l’accordo firmato il 18 marzo a Bruxelles tra il governo di Ankara e l’Unione europea. Ma sono già troppi perché i paesi dell’Est non ne vogliono neanche uno dopo le bombe di Bruxelles. Quelli che arrivano in Grecia con gli scafisti pirati saranno invece rimandati in massa in Turchia.
Sei miliardi di euro saranno un risarcimento, rimborseranno le spese sostenute per il mantenimento dei profughi. E sono state espresse, come compenso, la disponibilità a riprendere i negoziati per l’ammissione del paese nell’Unione europea e la promessa altrettanto vaga di annullare i visti di ingresso, sempre in Europa, entro giugno, per i cittadini turchi, se sono riempite determinate condizioni. Questo è il prezzo da pagare affinché la Turchia sia una diga in grado di frenare la massa di migranti verso l’Europa. Nel contratto euro-turco, nonostante le vaghe promesse, ci sono le vecchie reticenze europee sull’ammissione turca in Europa e le frustrate aspirazioni turche per la lunga attesa alle porte dell’Europa, che sembra un miraggio sfiorito benché rievocato. Questa volta in molti, nelle capitali dell’Unione, il dubbio è più brutale perché riguarda il presente. Ci si chiede se sia o non sia compatibile con i nostri dichiarati principi il patto del 18 marzo. Esso è stato definito in vario modo: poco glorioso, scellerato, non conforme alle regole umanitarie, oppure vittoria della diplomazia. Ossia un compromesso più incline all’etica della responsabilità, non essendoci alternative alla cinica realpolitik, che all’etica della convinzione, non essendoci la volontà morale, pur sbandierata.
La Turchia, cavallo di Troia dell'islamismo se fosse accolta in Europa
L’Europa ha affidato in un certo senso alla Turchia le chiavi del continente e adesso la decisione, presa con grande esitazione, accende polemiche e scandalizza i difensori dei diritti umani. Al vecchio interrogativo rimasto in sospeso sull’eventuale ammissione della Turchia nell’Unione europea, adesso se ne aggiunge uno preliminare. Riguardante l’opportunità di concludere un accordo, su una vicenda umanitaria, con un paese non troppo rispettoso delle regole democratiche. Nel trattamento dei migranti il paese cerca di mostrarsi generoso (nei limiti del possibile: accesso alla assistenza sanitaria, permesso di lavoro temporaneo, apertura delle scuole). E tuttavia l’agitata società turca dà segni di insofferenza, anche se la sua storia ricorda altre ondate di profughi, sia pure meno impetuose: i russi in fuga dalla rivoluzione del 1917; gli ebrei, nella seconda guerra mondiale, in attesa del visto britannico per la Palestina. Il principio della turchicità crea comunque una periodica, violenta allergia alla minoranze. Bisognava avere fiducia nella Turchia al punto da concludere l’accordo di Bruxelles? L’interrogativo è posto anche su altri aspet- ti di quel patto. Respingere i migranti politici approdati clandestinamente in Europa è contrario alle regole del diritto d’asilo, e dei principi europei. E il fatto di affidare alla Turchia, considerandolo “un paese terzo sicuro”, il compito che ci compete è altrettanto discutibile.
Quei sei miliardi di euro aggiudicati al governo di Ankara, per colmare le spese dei profughi, sembrano il prezzo della nostra colpa. Infatti l’intesa con la Turchia è stata resa necessaria per la nostra incapacità di affrontare insieme, compatti, il flusso dei profughi. È “una guerra” che i paesi europei ( più di cinquecento milioni di abitanti) avrebbero dovuto affrontare uniti. E invece hanno dato a un altro il compito di combatterla. Non è scontato che il baratto funzioni. Ma la Turchia, per la posizione geografica e il numero di profughi, era la sola scelta possibile. Nell’Istiqlal Caddesi, Via dell’Indipendenza, è avvenuto l’ultimo attentato, dieci giorni fa, il 19 marzo. Ha fatto cinque morti e più di trenta feriti. La vetrina del ristorante popolare, in cui si vedono le donne in costume tradizionale dell’Anatolia fare la pasta, è intatta. Questo mi rassicura. Il locale, semplice, mi è familiare. I danni dell’esplosione sono stati riparati in fretta. Qui siamo nell’Istanbul in cui la vita, malgrado gli avvenimenti e il sempre più diffuso senso di incertezza, continua con dinamismo. C’è sempre un’atmosfera di festa. Negozi eleganti spalancati, agenzie di viaggio affollate, ristoranti pieni a quasi tutte le ore, locali equivoci nei vicoli adiacenti, un passeggio intenso nella lunga strada pedonale, paragonata a Broadway dagli enfatici uffici turistici. Negli hotel di lusso dei paraggi il numero delle spie ha superato i livelli dei tempi eroici. Le guerre asimmetriche di oggi richiedono intensi interventi delle intelligence. E gli agenti dei vari servizi incrociano i generosi arabi del Golfo in vacanza con escort russe e ucraine. Quando due sabati fa il kamikaze si fece saltare in aria, la prima reazione fu di attribuire l’attentato ai curdi del Pkk. Ma poi spuntò il nome di Daesh, il califfato.
Il primo ministro, Ahmet Davutoglu, dice che non c’è differenza tra il Pkk e Daesh. Sono entrambi dediti al terrorismo. Lo dice anche Erdogan, l’imprevedibile presidente. Ad ogni strage sorge il dubbio: chi è il responsabile? I centodue morti di Ankara, in ottobre, sono stati attribuiti a Daesh; i dieci morti del 12 gennaio a Istanbul sempre a Daesh; ma i ventotto del 17 febbraio a Ankara al Pkk. La Turchia affronta due conflitti i cui luoghi di scontro si estendono ai paesi vicini, la Siria e l’Iraq, ma anche ai territori nazionali dell’Est. L’esercito non si risparmia nella repressione a Cizre, a Diyarbakir o a Surt, le città curde spesso sottoposte al coprifuoco e dove i giornalisti non sono sempre graditi. Questo accanimento contro la forte minoranza curda ricorda inevitabilmente quello dei “giovani turchi” un secolo fa contro gli armeni. Ma questa volta non si tratta di una popolazione disarmata, ma di vari movimenti alcuni dei quali fortemente combattivi e dispersi in regioni di diversi paesi. Iran, Turchia, Iraq.
Ci sono inoltre partiti democratici filocurdi e gruppi terroristi curdi. Il Kurdistan iracheno usufruisce già di un’autonomia che assomiglia a un’indipendenza. In Siria, proprio a ridosso del confine turco, si sta profilando la stessa autonomia. Realizzabile se la guerra civile dovesse concludersi con la nascita di una federazione siriana. I curdi che Erdogan combatte costituiscono inoltre l’efficiente fanteria dell’alleanza guidata dagli americani contro Daesh e Al Nusra, l’altro gruppo terrorista legato ad Al Qaeda. Di quella stessa coalizione fa parte la Turchia, la quale considera tuttavia i curdi degli avversari. Amici e nemici si confondono. Cambiano ruolo. La questione curda è diventata un’ossessone per il governo islamico-conservatore di Ankara, anche perché sembra destinata ad assumere sempre più importanza. Il conflitto mediorientale condurrà col tempo alla necessità di ridisegnare i confini tracciati un secolo fa alla fine dell’Impero ottomano. E allora potrebbe emergere una nazione curda. Per la Turchia di Erdogan è un incubo che spinge ad adottare misure non sempre democratiche. Un serio problema per la democrazia turca è la costante minaccia che pesa sulla libertà di stampa. In ogni critica il presidente sospetta un complotto.
Secondo l’agenzia indipendente Bianet dal 2014 sono stati fermati 192 giornalisti e 687 sono stati licenziati per motivi politici più o meno dichiarati. L’anno scorso la giustizia ha sospeso sei trasmissioni radio o televisive. Ha tenuto cinque processi a porte chiuse su casi riguardanti la stampa. I poteri amministrativi hanno bloccato 118 siti e 353 account Twitter. Non meno di trenta giornalisti sono attualmente in carcere. L’arma usata dal governo è la pressione fiscale con la quale si costringono gli editori sgraditi a cedere la proprietà a persone vicine al regime. È quel che è accaduto al quotidiano di centro sinistra Milliyet. Altri giornali si sono rassegnati all’autocensura. Particolarmente colpiti in vario modo, attraverso la pubblicità o addirittura con l’arresto del direttore, come nel caso del quotidiano conservatore Zaman, sono quelli di proprietà o vicini alla confraternita socioreligiosa Gulen, che fa capo al predicatore Fethullah Gulen, residente negli Stati Uniti, un tempo amico di Erdogan ed ora suo acerrimo rivale. Gulen è puntualmente accusato di essere alla testa di uno “Stato parallelo”, con radici nella polizia, nell’esercito, ed anche in alcuni ambienti laici.
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