lunedi` 18 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
17.03.2016 Al Sisi: '5 domande da farsi prima di intervenire in Libia'
Intervista di Mario Calabresi, Gianluca Di Feo

Testata: La Repubblica
Data: 17 marzo 2016
Pagina: 1
Autore: Mario Calabresi; Gianluca Di Feo
Titolo: «'Missione in Libia, l'Italia rischia un'altra Somalia'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 17/03/2016, a pag. 1-3, con il titolo "Missione in Libia, l'Italia rischia un'altra Somalia", l'intervista di Mario Calabresi, Gianluca Di Feo a Abdel Fattah al Sisi.

Immagine correlataImmagine correlata
Mario Calabresi, Gianluca Di Feo

Immagine correlata
Abdel Fattah al Sisi

«L’INTERVENTO in Libia? Voglio essere molto sincero, perché l’Italia è un paese amico dell’Egitto ed entrambi siamo molto interessati alla sicurezza nel Mediterraneo. Prima di tutto bisogna chiedersi: qual è la exit strategy?». Nella sala dove il presidente Abdel al-Fattah Al Sisi rilascia l’intervista a Repubblica un arazzo fiammingo occupa un’intera parete: raffigura una battaglia del Cinquecento, una cruenta imboscata con cavalieri che uccidono gli avversari e cannoni che spazzano via accampamenti.

E quando parla della situazione libica, l’esperienza del generale sembra prendere il sopravvento sulla diplomazia del capo di Stato: pur ribadendo la disponibilità dell’Egitto a contribuire a eventuali iniziative militari, ci tiene a sottolineare i rischi di una missione a guida italiana sull’altra sponda del Mediterraneo: «Mi sembra opportuno porre cinque domande. Uno: come entriamo in Libia e come ne usciamo? Due: chi avrà la responsabilità di rifondare le forze armate e gli apparati di polizia? Tre: nel corso della missione, come si farà a gestire la sicurezza e proteggere la popolazione? Quattro: un intervento sarà in grado di provvedere ai bisogni e alle necessità di tutte le comunità e i popoli della Libia? Cinque: chi si occuperà della ricostruzione materiale? Perché un intervento esterno abbia successo è necessario che riesca a farsi carico di tutti gli aspetti della vita del paese. Non vorrei apparire esagerato nel sottolineare queste domande, ma si tratta dei problemi con cui dovremmo misurarci nell’eventualità di una operazione sul campo. E in ogni caso è molto importante che ogni iniziativa italiana, europea o internazionale avvenga su richiesta libica e sotto il mandato delle Nazioni Unite e della Lega Araba».

Ma gli sforzi per rendere funzionante il governo unitario formato con la mediazione delle Nazioni Unite finora non hanno avuto successo e il parlamento di Tobruk, quello riconosciuto dalla comunità internazionale, non lo ha ancora votato. Come si sta muovendo l’Egitto? «Sin dall’inizio l’Egitto ha avuto un ruolo per arrivare alla nascita di un governo nazionale unitario e ha spinto in questo senso assieme ai paesi amici come l’Italia. Stiamo incoraggiando il parlamento di Tobruk ad approvarlo e ci siamo attivati perché tutte le parti in causa si assumano le loro responsabilità».

State facendo pressioni sul parlamento di Tobruk, che è ritenuto particolarmente legato al vostro paese? «Facciamo pressioni su Tobruk e abbiamo compiuto tutte le azioni perché quel parlamento approvi il governo unitario». Secondo Al Sisi c’è però un errore di fondo: «Gli europei guardano alla Libia come se l’Isis fosse l’unica minaccia: no, non è la sola incarnazione del pericolo, è un errore grave concentrare l’attenzione solo su questa formazione. Dobbiamo capire che la minaccia è nell’ideologia estremista che chiede ai propri seguaci di uccidere chi è fuori dal gruppo e bisogna essere consapevoli del fatto che abbiamo davanti sigle differenti con la stessa ideologia: cosa dire delle reti qaediste come Ansar al Islam, come gli Shabab somali fino a Boko Haram in Africa?». E anche se il presidente egiziano non ne fa cenno, in Libia operano diverse organizzazioni jihadiste di questo tipo, vicine al governo di Tripoli e spesso avversarie dell’Isis. L’intervento occidentale però non è l’unica opzione sul tavolo. Al Sisi suggerisce un’alternativa, quella che l’Egitto segue da quasi due anni, appoggiando l’Esercito nazionale libico del generale Haftar, l’armata legata al parlamento di Tobruk. «Ci sono risultati positivi che si possono raggiungere sostenendo l’Esercito nazionale libico. E questi risultati si possono ottenere prima che noi ci assumiamo la responsabilità di un intervento».

Finora però le forze dell’Esercito nazionale non sono riuscite a sconfiggere né l’Isis, né le altre formazioni jihadiste. «Se forniamo armi e supporto all’Esercito nazionale libico, può fare il lavoro molto meglio di chiunque altro, meglio di ogni intervento esterno che rischia invece di portarci in una situazione che può sfuggire di mano e provocare sviluppi incontrollabili».

Quali? «Bisogna tenere a mente due lezioni: quella dell’Afghanistan e della Somalia. Lì ci sono stati interventi stranieri più di trent’anni fa e quali progressi sono stati raggiunti da allora? I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la storia parla chiaro». Il problema è lo stesso, che si è ripetuto anche nell’Iraq del dopo Saddam e nella Siria della guerra civile: «Se le istituzioni vengono distrutte, per ricostruirle occorre molto tempo e sforzi significativi. Questa è l’origine delle nostre grandi paure riguardo alla Libia: più tardi agiamo, più rischi si generano. Dobbiamo agire in fretta e difendere la stabilità di tutti i paesi che non sono ancora caduti nel caos, per questo ci vuole una strategia globale che non riguardi solo la Libia ma affronti i problemi presenti in tutta la regione. Problemi che poi possono trasformarsi in minacce alla sicurezza pure in Europa. Guardate cosa sta succedendo con le persone in fuga dalla Siria: cosa accadrebbe ad esempio se l’Europa dovesse misurarsi con un’ondata di profughi due o tre volte più grande di quella attuale? Per questo dico che non ci si può occupare solamente del problema militare della Libia».

Le autorità italiane riconoscono all’Egitto un ruolo molto importante nel contrasto del traffico di uomini e dell’immigrazione clandestina che avviene attraverso il Mediterraneo. Cosa può fare l’Europa? «Partiamo dalla definizione di immigrazione illegale: cos’è? Un movimento di persone che cercano un luogo dove vivere in modo migliore. Questa è la definizione corretta. Quando parliamo di sforzi per contrastare il traffico di esseri umani non possiamo pensare di eludere o dimenticare le radici di questo fenomeno. Ci sono ragioni politiche, i conflitti, le violenze, il terrorismo e la mancanza di sicurezza, ma anche ragioni sociali come povertà disoccupazione e fame. L’Unione Europea può avere un ruolo fondamentale per lavorare sulle cause, aiutando i paesi da cui partono i migranti e collaborando agli sforzi per diminuire i conflitti e eliminare il terrorismo».

Oggi invece molti paesi della Ue sembrano solo preoccupati di costruire muri. «L’Europa deve sostenere quei paesi dove ci sono fame e disperazione così da creare un ambiente più sicuro e stabile che convinca i giovani a restare a casa e a non partire. Questo, in senso metaforico, sarebbe il vero muro da costruire. Io dico sempre che capacità significa responsabilità, significa che i mezzi di cui disponete vi danno la responsabilità di aiutare la gente e i paesi che soffrono. Se non saremo capaci di dare risposte profonde a questi problemi, l’immigrazione illegale continuerà per molti anni insieme alla sofferenza di tante popolazioni e la crisi continuerà a spostarsi dai paesi di origine alle coste dell’Europa».

In che misura l’Egitto deve fronteggiare questa ondata di profughi? «L’Egitto ospita cinque milioni di rifugiati, che vengono da Libia, Iraq, Siria e Africa e noi non siamo ricchi e avanzati come l’Europa. Non li trattiamo come rifugiati ma dividiamo con loro quel poco che abbiamo trattandoli da fratelli. Spero che queste parole non vengano lette come un incoraggiamento per chi vuole emigrare, sono solo una diagnosi nella ricerca di soluzioni per chi soffre, per non dimenticare la necessaria umanità. Quanta gente è morta nel viaggio verso di un paese migliore dove vivere? Quelli che conosciamo e quelli di cui non sappiamo nulla, i morti senza nome. E non ci sono soltanto i pericoli del mare, ma le traversate nel deserto, i campi minati e gli attacchi dei terroristi». Poi conclude, passando dall’arabo all’inglese per scandire le parole: «Non abbandonate i poveri e i deboli, non voltate loro le spalle».

Seconda parte - fine

Per inviare la propria opinione alla Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT