Riprendaimo dal FOGLIO di oggi, 15/03/2016, a pag. I, con il titolo "Il Voltaire maledetto", un'anticipazione de "La tragedia del diavolo. Fede, ragione e potere nel mondo arabo" di Sadik al-Azm (Luiss University Press), in libreria da giovedì 17 marzo.
Sadik al-Azm
Le pagine seguenti presentano al lettore una raccolta di studi dedicati a un esame di tipo contemporaneo, laico e scientifico, di vari aspetti del pensiero religioso tuttora prevalente, in forme e modi diversi, nel mondo arabo contemporaneo. Non serve avvertire il lettore di come tale tipo di pensiero domini ampiamente la vita mentale ed emotiva degli arabi, implicitamente e inconsciamente o esplicitamente e consciamente. Il metodo di cui mi sono avvalso per comporre questi studi consiste nel valutare il “pensiero religioso” in uno dei suoi specifici significati: creazioni intellettuali, consapevoli e meditate, che riguardano la religione prodotte da vari autori, istituzioni e sostenitori.
Questo senso di “pensiero religioso” rappresenta solamente lo strato superficiale cosciente di quella massa amorfa e gelatinosa di idee, concezioni, credenze, obiettivi e costumi a cui diamo nomi come “mentalità religiosa”, “ideologia sovrannaturale”, o “mentalità spirituale salafita” e simili. In questo senso, la “mentalità religiosa” è caratterizzata dalla prevalenza di un’accettazione spontanea dei limiti dell’“ideologia sovrannaturale” implicita e prevalente e dalla sottomissione inconscia ad essi. Tra le funzioni principali della produzione intellettuale e consapevole del pensiero religioso vi è l’esplicitazione degli aspetti impliciti dell’ideologia sovrannaturale implicita, ossia il teorizzarne, giustificarne e razionalizzarne i contenuti, fornendo loro un’apparenza ordinata, consistente e coerente. In altre parole, essa eleva l’ideologia religiosa, per quanto possibile, da implicita, inconscia e spontanea a organizzata, intellettuale, cosciente e logica. Contrariamente alle funzioni del pensiero religioso, c’è un pensiero analitico e scientifico che, tra le altre cose, si presume operi una critica costante dell’ideologia sovrannaturale prevalente a tutti i livelli. Qual è lo stato di quest’ultimo tipo di pensiero nella vita intellettuale contemporanea araba? Dopo la sconfitta araba del giugno 1967 un certo numero di scrittori arabi pro- gressisti intraprese una critica di alcuni aspetti delle strutture sociali tradizionali e culturali della vita sociale araba, e del loro lascito. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, la critica alla sovrastruttura e agli strati più elevati della società civile araba (pensiero, cultura, legislazione, ideologia sovrannaturale implicita, e così via) è rimasta assai flebile e indistinta. Particolarmente debole è stata la trattazione della “mentalità religiosa”, per quanto tutti ne riconoscessero l’importanza, la comprensività e la serietà della sua influenza. In verità, la maggior parte della critica non andò oltre la ripetizione di alcune estese generalizzazioni e di logori cliché nel denunciare la “mentalità sovrannaturale indifesa” e la “fede nel sovrannaturale, nei miti, e le credenze in soluzioni miracolose”, prima di implorare il popolo arabo e ai suoi leader affnché adottassero un “atteggiamento scientifico” e una “metodologia razionale” nel relazionarsi ai fatti e agli eventi, e perché lavorassero per la costruzione di uno Stato tecnocratico contemporaneo. Nessuno di questi critici e “supplici” ha poi proseguito nella critica della mentalità sovrannaturale religiosa – da loro rigettata – sulla base di un esame diretto, razionale e scientifico degli esempi viventi e tangibili di quanto essa produceva e affermava, e del modo in cui spiegava gli eventi.
La copertina
Spero di non essere del tutto in errore quando dico che ho cercato di mettere in pratica, negli studi seguenti, un tipo di critica concreta di quel pensiero religioso che è così diffuso tra l’opinione pubblica araba. D’altra parte divenne chiaro come, dopo la sconfitta del 1967, l’ideologia religiosa, sia consapevole sia ingenua, fosse la fondamentale “arma ideologica” della reazione araba nella sua guerra aperta, e nelle sue manovre segrete, contro le forze progressiste e rivoluzionarie interne al mondo arabo. Alcuni regimi arabi progressisti hanno persino trovato nella religione uno strumento per riappacificare le masse arabe, oltre che per nascondere il fallimento e l’impotenza che la sconfitta aveva reso evidenti, allineandosi con le spiegazioni religiose e spiritualistiche fornite allora per la vittoria di Israele e per la sconfitta degli arabi; e rassegnandosi in silenzio, all’epoca, a dover attendere una nuova vittoria che sarebbe arrivata, però, dall’Onnipotente (…). Da questi studi il lettore apprenderà come il pensiero religioso interpreti il ruolo che abbiamo precedentemente illustrato di “arma ideologica” attraverso la falsificazione della realtà e della coscienza delle sue verità: a) falsificando la verità riguardo alla relazione tra l’Islam e la scienza moderna; b) falsificando la verità riguardo alla relazione tra religione e ogni tipo di regime politico (ad esempio, la formula di un socialismo che sia arabo, scientifico, musulmano, credente e rivoluzionario, tutto allo stesso tempo); c) falsificando la verità riguardo alla stringente classificazione rivoluzionaria in nemici e amici nella relazioni internazionali in questa delicata fase storica contemporanea (come, ad esempio, nella Islamic Summit Conference); d) falsificando la verità riguardo all’attuale battaglia sociale nel mondo arabo tra le forze sociali rivoluzionarie emergenti e quelle reazionarie e ostruttive, tra le forze sfruttate e calpestate della ribellione e quelle della classe dominante (ad esempio, nelle invocazioni a costruire ponti tra le classi in nome della giustizia, riconciliazione, amore e altri valori spirituali).
Questo processo di falsificazione indubbiamente tutela gli interessi di una ristretta classe dominante, che lotta crudelmente per mantenere se stessa e i propri privilegi imponendo la propria ideologia religiosa e la propria ingannevole prospettiva mitologica alla società nel suo insieme e all’interezza della sua vita culturale e intellettuale. Tutti sapevano, già prima della sconfitta del 1967, che il pensiero religioso rappresentava un’arma ideologica nelle mani dei reazionari arabi e dei loro alleati in tutto il mondo. Eppure il movimento di liberazione arabo non si è mai fatto carico dell’onere di combattere intellettualmente e scientificamente quest’arma attraverso un’analisi scientifica, mettendo in luce i vari tipi di alienazione e falsificazione che l’ideologia religiosa aveva imposto agli arabi.
Questo atteggiamento conservatore è parte di una mancanza generale di iniziativa, da parte del movimento di liberazione arabo e della sua leadership politica e intellettuale, nella critica dell’eredità sociale e intellettuale araba, e nella rivalutazione dei suoi livelli sovrastrutturali rispetto alle grandi trasformazioni materiali in essere nei livelli infrastrutturali della società. Il movimento di liberazione arabo considerava gli strati culturali superiori – insieme a quanto questi contenevano in termini di schemi mentali retrogradi, valori risalenti al tempo del nomadismo e del feudalesimo, relazioni umane di stampo profondamente regressivo, e prospettive di vita quietistiche, apatiche e sovrannaturali – come degni di rispetto e venerazione. Le ammantò di un’aura di sacralità che le spinse al di fuori della portata dell’analisi storica e del criticismo scientifico. Sul dialogo interreligioso Vale la pena notare che all’interno del pensiero riconciliante esiste un particolare approccio, prettamente libanese, rappresentato dal cosiddetto “dialogo islamico-cristiano”. Questo merita la nostra attenzione, poiché rivela ancora una volta fino a che punto, e con quanta forza, questo tipo di pensiero accomodante si sia infiltra- to nelle menti di chi ha la responsabilità per gli affari religiosi. Alcuni degli autori ecclesiastici che abbiamo precedentemente citato partecipano anche alla serie di conferenze proposte al Cénacle libanais, il cui scopo fondamentale è la promozione del dialogo islamico-cristiano in Libano. Le conferenze seguono il solito schema del pensiero riconciliante: il dialogo islamicocristiano è descritto con espressioni retoriche prive di significato e generalizzazioni, nei termini di un’antica armonia da Islam e cristianità. (…)
Nessuno degli intellettuali partecipanti al dialogo ha sollevato la benché minima obiezione, nessuno ha chiesto che fosse esaminata almeno una questione concreta sulla quale misurare il grado di accordo tra cristiani e musulmani. Al contrario, fedeli alle tattiche note del pensiero riconciliante, tutti partecipanti si sono sforzati di ignorare qualunque ben definita e essenziale questione dottrinale, preferendo invece indulgere in sofismi, in adulazioni e in generalizzazioni, il cui obiettivo – raggiunto – è stato solo quello di non offendere o provocare l’ira di alcuno. Padre Joachim ha accennato, in modo conciso e oscuro, ai temi sui quali il dialogo si sarebbe dovuto basare: “Un incontro puramente teologico” tra Islam e cristianità (cioè, una teologia comparativa). Egli ha poi affermato che “il sorgere di incomprensioni tra credenze cristiane e islamiche è unasegnale che ci indica il bisogno di ritornare alle fonti; fonti che non ci separano, ma ci avvicinano”. Nessuno dei partecipanti al dialogo ha mosso obiezioni alle parole di padre Mubarak, o le ha discusse.
Vorrei ricordare a padre Mubarak come l’integrità intellettuale ci costringa a rendere esplicito il fatto che approcciare il cuore della questione del dialogo come da lui concepito (come cioè un incontro teologico) non condurrà a un mero “sorgere di incomprensioni” tra le parti, come da lui osservato con cortesia e buone maniere. Al contrario, l’integrità intellettuale ci costringe a riconoscere l’esistenza di radicali differenze teologiche e di profondi disaccordi dottrinali tra Islam e cristianità (come un rigoroso confronto teologico proverebbe), che non possono essere superati con formulazioni oscure e utopiche relative a un “ritornare alle fonti”. Per tale ragione, i pensatori e i riconciliatori che hanno partecipato al dialogo hanno volutamente evitato ogni serio invito a un “puro incontro teologico” e alle conseguenze che esso avrebbe. Per allontanarci dalle generalizzazioni, e per fare un po’ di chiarezza, offrirò adesso un esempio breve e diretto di incontro teologico tra cristianità e Islam. In altre parole, farò il lavoro che avrebbero dovuto compiere in modo profondo e accurato i partecipanti al dialogo. Un cristiano crede nel peccato originale, mentre un musulmano lo nega: lo considera al massimo una storia bizzarra, e trova strano il fatto che qualcuno vi creda nonostante la sua “illogicità”.
Un cristiano crede nella Santa Trinità, idea blasfema per un musulmano, in quanto rappresenta una chiara deviazione da quella che è l’unicità di Dio. Un cristiano crede inoltre che Dio si sia incarnato in Cristo, cosa che un musulmano arriva a considerare essenza stessa della blasfemia e una deviazione da tutto quello che definisce un sentimento religioso logico, ragionevole e credibile riguardante gli attributi di Dio. Un cristiano crede che Gesù sia il figlio di Dio, cosa cui un musulmano risponde citando: “Di’: Egli Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato, e nessuno è uguale a Lui” (Corano 112:1-4). Un cristiano crede inoltre alla crocifissione di Gesù, alla sua resurrezione, al suo essere il Salvatore, mentre un musulmano nega la crocifissione e la resurrezione e non riconosce il Salvatore. Offro questo modesto confronto teologico a padre Joachim Mubarak e a tutti i partecipanti al dialogo con la seguente nota: fino a quando i partecipanti al dialogo preferiranno la retorica, i sofismi, l’adulazione e la ricerca della riconciliazione attraverso generalizzazioni, nobili sentimenti, e la “prossimità, ormai da generazioni, delle due religioni”, i loro sforzi resteranno privi di risultato, che ci si trovi o meno d’accordo sulle conclusioni. In assenza di un approccio realistico e scientifico alla religione è inevitabile che il dialogo cada in una ripetizione dei soliti cliché, come l’affermazione citata in precedenza che tutti, cristiani e musulmani, adorano un unico Dio. Lo sceicco Subhi al-Saleh, citando le parole del papa, ha affermato che “Sua santità non perde opportunità di rivolgersi a tutti i credenti nell’Unico Dio Onnipotente”, aggiungendo poi che “Egli è il Dio che anche noi adoriamo”.
Mi sembra che il dialogo cristiano-musulmano dovrebbe chiarire in particolare questo punto: E’ vero che il Dio adorato dai musulmani è lo stesso Dio adorato dai cristiani? Il Dio composto di Padre, Figlio e Spirito Santo, e che si è incarnato su questa terra e ha mandato il Suo Figlio a salvare l’umanità, è lo stesso Dio adorato dai musulmani? Personalmente credo di no. Quello che ci rimane da fare è scoprire ciò che i sostenitori del dialogo tra cristiani e musulmani pensano sulla base di un dibattito reale e di una discussione esplicita, e non sulla base di civiltà, collaborazione, e ragionamenti basati sull’equivoco, su accenni e sulla consolazione. Fin quando non adotteremo come guida allo studio della religione in generale una metodologia storico-scientifica critica, il dialogo tra musulmani e cristiani resterà più un “dialogo tra sordi” che uno scambio produttivo.
L’approccio critico allo studio della fenomenologia religiosa implica il muovere da un terreno neutrale, basandosi cioè su una fondazione strettamente scientifica e laica. Significa inoltre guardare alla dottrina religiosa come materia puramente personale e soggettiva legata alla libera scelta dell’individuo in funzione delle sue convinzioni e disposizioni. E’ quindi più appropriato e idoneo che la comprensione e il dialogo tra i libanesi siano basati sul principio dell’appartenenza civica e degli interessi condivisi, e non sulla classificazione religiosa o sulla affiliazione settaria. Mancando un contesto scientifico, ogni partecipante al dialogo ha prodotto varie assurdità riguardo alla concezione religiosa della controparte. Alcune di tali assurdità includono i tentativi compiuti dagli studiosi di giurisprudenza islamica di provare che la Bibbia abbia previsto la missione del profeta Maometto (Ahmad), di cui Ibba (il nome islamico per Gesù) non sarebbe altro che il precursore. Questi studiosi citano il vangelo di Barnaba, nonostante sia apocrifo e rifiutato dalla Chiesa cristiana, perché annuncia, secondo quanto riportato, il Profeta Ahmad. Essi affermano che l’attuale Vangelo ritenuto sacro dai cristiani sia in realtà una corruzione del “Vangelo originale” che Dio avrebbe rivelato a Issa, contenente menzione del Profeta Maometto.
Come può esistere un dialogo tra cristiani musulmani se questi ultimi continuano a fabbricare teorie sui testi sacri delle loro controparti e a intromettersi nelle loro questioni interne? Cambiando prospettiva invece, scopriamo come alcuni intellettuali cristiani che hanno studiato l’Islam siano diligentemente al lavoro per dimostrare come il Corano ammetta la divinità di Cristo, cosa che avvicinerebbe le due religioni rendendo il dialogo più produttivo. Tuttavia, come può aver luogo un tale dialogo se i cristiani costruiscono interpretazioni sul contenuto del Corano e sul significato di quanto esso dice di Gesù? L’assenza di una metodologia scientifica nello studio del fenomeno religioso conduce quindi inevitabilmente a tale sordità, o a puro sentimentalismo e espressioni smodate di nobili emozioni.
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