Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/03/2016, a pag. 3, con il titolo "La scommessa dello Zar", l'analisi di Guido Olimpio.
Guido Olimpio
Vladimir Putin con il sanguinario dittatore siriano Bashar Al Assad: entrambi sono alleati dell'Iran degli ayatollah
Il 1° maggio del 2003 George W. Bush dichiarò con troppa fretta la «missione compiuta» in Iraq. Gli altri non erano d’accordo e la guerra non è mai finita. Ora tocca a Vladimir Putin, consumato giocatore, a fare la mossa ad effetto, anche lui parla di missione compiuta in Siria. E in parte ha ragione. Ma solo in parte, perché il possibile inizio del ritiro dal paese alleato non è la fine del conflitto.
Salvare Assad
Il Cremlino può certamente rivendicare di aver impedito la sconfitta di Assad. In estate il regime era attaccato su più fronti dagli oppositori, bene armati, determinati anche se eternamente divisi. Le «brigate» progredivano minacciando le regioni dove gli alawiti — la setta al potere — si erano sempre sentiti al riparo. Putin, già scioccato dall’eliminazione di Gheddafi, ha deciso di intervenire in modo risoluto usando lo schermo della lotta all’Isis. Il contingente composto da alcune migliaia di militari (4-5 mila), da una robusta componente aerea e dall’artiglieria pesante ha fatto da architrave per un apparato riempito di miliziani sciiti stranieri. L’Iran ha mandato pasdaran e basij , quindi ha reclutato afghani, iracheni e Hezbollah libanesi. Sono stati loro ad avere le perdite maggiori, sono stati ancora loro a dover affiancare le truppe siriane nella riconquista dei villaggi. La strategia russa ha richiesto tempo, tanto che dopo i primi tre mesi non sembravano esserci cambiamenti sostanziali. Invece Mosca ha logorato il nemico con bombardamenti selvaggi, indiscriminati, senza porsi alcun limite, anche perché non c’era nessuno a «casa» che osasse ricordare quali fossero. Il modello usato in Cecenia negli anni ‘90 è stato riprodotto nello scacchiere siriano. I generali si sono mossi su due linee: distruzione meticolosa delle posizioni ribelli a est di Latakia e nella zona nord di Aleppo, blocco delle vie di rifornimento. Una pressione garantita da una cadenza di cento raid al giorno e dal fuoco devastante delle batterie di cannoni, sistemi a lungo raggio, mortai, missili da crociera. I consiglieri, insieme a piccoli reparti di forze speciali, hanno assistito le unità scelte governative, provando a migliorare manovre e tattiche al fine di ridurre i danni per blindati e mezzi. La spallata, agevolata anche dalle consuete fratture dell’opposizione, ha allontanato i nemici di Assad. Altrettanto importante l’azione in chiave anti-turca. Putin, complice l’avventurismo di Erdogan, ha di fatto impedito che Ankara creasse una zona di sicurezza nella parte nord della Siria. L’abbattimento da parte della Turchia di un Sukhoi russo ha fornito allo «zar» la possibilità di rispondere con durezza. Missili e caccia russi hanno creato un ombrello vietando all’avversario di violare lo spazio siriano, al tempo stesso hanno reso complicati i rifornimenti verso l’enclave di insorti a Aleppo e Idlib. Il Cremlino infine ha favorito — come gli Usa — le iniziative militari dei curdi Ypg.
Oppositori sul campo
La svolta nel conflitto è però parziale. I ribelli non sono certo scomparsi così come le istanze che rappresentano. Il raìs continua a dipendere dall’aiuto esterno e non ha numeri a sufficienza per controllare l’intero territorio. Ci sono regioni dove sventola il vessillo dell’opposizione, aree dove le persone non hanno cambiato idea sul presidente. Sarà il terreno a misurare la veridicità delle intenzioni di Putin. I fanti di marina forse torneranno in patria, ma in Siria resta ciò che serve: i bombardieri, i grossi calibri, gli «assistenti», la basi di Tartus, Latakia e Hemeimeen. Lo Stato Maggiore avrà sempre quella componente che ha rappresentato il salto di qualità, il colpo di maglio che ha probabilmente indotto alcune formazioni ad accettare un negoziato. Uno spazio dove Stati Uniti e Russia collaborano a soluzioni politiche pensando a cosa fare con Assad.
Contro i jihadisti
E poi c’è lo Stato Islamico, toccato solo in parte dall’offensiva russa in quanto non era il nemico principale. Pur indebolito rimane una minaccia, mantiene la sua presenza nel nord est e in altri cantoni . Gli Stati Uniti vogliono cacciarlo da Raqqa usando curdi e ribelli, i lealisti cercano di strappargli la storica Palmira e negli ultimi giorni hanno lanciato degli attacchi per testare le difese delle città. Non erano soli: al loro fianco i caccia russi e le batterie di razzi, il lungo braccio di Vladimir.
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