lunedi` 18 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
06.03.2016 Libia, le analisi: serve chiarezza e decisione
Analisi di Maurizio Molinari, Paolo Mieli

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Paolo Mieli
Titolo: «Perché serve una dottrina della sicurezza - La missione in Libia e i pericoli per l'Italia»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 06/03/2016, a pag. 1-19, con il titolo "Perché serve una dottrina della sicurezza", l'analisi di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, a pag. 30, con il titolo "La missione in Libia e i pericoli per l'Italia", l'analisi di Paolo Mieli.

Ecco gli articoli:

Immagine correlata
Terroristi dello Stato islamico a Sirte, Libia

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Perché serve una dottrina della sicurezza"

Immagine correlata
Maurizio Molinari

Il dramma attraversato dai quattro tecnici di «Bonatti» evidenzia la dissoluzione della Libia, suggerisce l’entità dei pericoli che ne conseguono per l’Italia e impone la necessità di una nuova dottrina sulla sicurezza nazionale.
L’uccisione di Fausto Piano e Salvatore Failla, così come l’odissea di Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, nasce dalla decomposizione della Libia. Lo Stato post-coloniale, creato nel 1951 e dominato per oltre 40 anni da Muammar Gheddafi non esiste più. Non ha governo, Parlamento, forze di sicurezza né controllo sui confini. Nelle tre regioni che ne erano parte - Tripolitania, Cirenaica e Fezzan - a prevalere è la polverizzazione dell’autorità del territorio da parte di una miriade di milizie armate che si contendono centri urbani, poteri locali, basi militari, vie di comunicazione, risorse naturali e traffici illegali. Gli esecutivi rivali di Tripoli e Tobruk sono segnati da lacerazioni intestine, firmano accordi destinati a cadere e devono fare i conti, da Sabratha a Misurata, con una sorta di città-stato gestite in proprio da leader corrotti, più o meno sanguinari. Ciò spiega la difficoltà della diplomazia internazionale - a cominciare da Stati Uniti e Italia - nel tentare di favorire la creazione di un governo di unità nazionale.
E l’intenzione dell’inviato Onu Martin Kobler di dialogare con le tribù, unica forma di rappresentanza alternativa alle milizie fra le quali spicca lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi padrone di almeno 200 km di costa attorno a Sirte. A descrivere la precarietà dell’opzione diplomatica è lo scenario a cui si sta lavorando: l’insediamento a Tripoli di un governo di unità incompatibile con quello locale islamico, con la città divisa di conseguenza in aree rivali colme di armi. Ovvero, una sorta di Berlino 1945 in versione maghrebina.

Tutto ciò pone tre tipi di minacce agli interessi nazionali italiani. Primo: la possibilità che gruppi terroristi, come Isis e Al Qaeda, estendano le enclave già occupate e le usino come piattaforma per lanciare attacchi contro il nostro territorio, e l’Europa, come anche azioni di pirateria contro il traffico marittimo nel Mediterraneo. Secondo: il sabotaggio di fonti di energia di importanza strategica per il fabbisogno nazionale, dall’impianto di Mellitah da dove parte il «South Stream» che arriva in Sicilia fino a raffinerie e pozzi off shore. Terzo: la cattura di cittadini o proprietà italiane al fine di ottenere riscatti politici o economici per consolidare il potere di clan e milizie locali.

Poiché si tratta di minacce contro la sicurezza collettiva, l’Italia è chiamata a difendersi. Ma la dottrina militare deve adattarsi a tale scenario. Dalla fine della Seconda guerra mondiale la sicurezza italiana ha avuto come pilastri l’adesione alla Nato e all’Unione Europea ma entrambe tali organizzazioni multilaterali sono state create per fronteggiare pericoli provenienti da Stati con confini, eserciti e governi. La campagna in Afghanistan contro i taleban ed Al Qaeda ha già evidenziato le difficoltà tattiche nella sfida a gruppi terroristi ed ora in Libia, dove i nemici sono ancor più disarticolati, tali problemi tattici aumentano. Perché abbiamo a che fare con una galassia di jihadisti, milizie, clan e trafficanti di ogni tipo.

Da qui la necessità per l’Italia di procedere in una duplice direzione. Da un lato spingere la Nato ad operare con maggiore agilità contro i nuovi pericoli e l’Ue a dotarsi di unità di intervento rapido capaci di entrare in azione con breve preavviso. Dall’altro stabilire dei principi per operare direttamente e in fretta, se necessario. Sono tali principi che dovranno formare il nucleo di una nuova dottrina di sicurezza. Le scelte compiute dai nostri maggiori alleati - Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia - suggeriscono una possibile strada da seguire: l’uso della forza viene deciso per eliminare minacce dirette ed immediate alla collettività così come per portare in salvo cittadini in pericolo di vita. Lo strumento per eseguire tali missioni sono le truppe speciali impegnate in operazioni guidate dall’intelligence: come altri Paesi Nato già fanno e come anche l’Italia può adesso fare dopo l’approvazione delle relative norme dal Parlamento, con i conseguenti decreti di attivazione da parte della presidenza del Consiglio. Ma avere lo strumento non basta: per adoperarlo con efficacia, e nel lungo termine, deve essere accompagnato da una dottrina di sicurezza.

CORRIERE della SERA - Paolo Mieli: "La missione in Libia e i pericoli per l'Italia"

Immagine correlata
Paolo Mieli

I miliziani di Gheddafi erano spietati. Ma anche i «buoni» non scherzavano. In estate l’Onu dovette emettere un comunicato ufficiale in cui si affermava che i rivoltosi di Bengasi avevano commesso crimini di guerra e violato ripetutamente i diritti umani. Amnesty International stilò un rapporto di ventuno pagine sugli «abusi dei ribelli». I quali ribelli, sconvolti dalle faide intestine, giunsero a uccidere il loro generale Abdel Fattah Younes, peraltro ex ministro di Gheddafi. Poi quando i «nostri» in agosto finalmente entrarono a Tripoli si scatenò un’imbarazzante «caccia ai neri» che i «liberatori» sostenevano essere mercenari al soldo del despota. Fu quindi una lunga serie di linciaggi e uccisioni a freddo. Talvolta stragi. Tutto questo, ripetiamo, prima che Gheddafi fosse scovato e venisse ucciso in un modo barbaro e mai del tutto chiarito.

In seguito le cose andarono anche peggio. Attacchi di brigate salafite a chiese di Bengasi, persecuzione di copti, attentati contro chiunque cercasse di riportare il Paese alla normalità, persino all’indirizzo di Hossam El-Badry, l’allenatore della più importante squadra di calcio. Nel settembre del 2012 a Bengasi venne ucciso da ultras islamici l’ambasciatore statunitense Chris Stevens nel clima surriscaldato da manifestazioni contro il film Innocence of Muslim . Iniziò poi la stagione dei rapimenti che, come abbiamo avuto occasione di constatare con amarezza, non si è ancora conclusa. Il Paese implose. Una fazione affiliata ai Fratelli musulmani si impossessò di Tripoli. Ma c’erano islamisti che scavalcavano questi «fratelli» in radicalità. Un commando di jihadisti attaccò l’hotel Corinthia dove risiedeva il primo ministro musulmano Omar al-Hasi provocando morti e feriti. Il governo legittimato dalle elezioni del 2014 fu costretto a riparare a Tobruk. Islamisti che si richiamano al califfo al Baghdadi si insediarono a Sirte e successivamente sono giunti a Sabratha ai confini con la Tunisia dove nei giorni scorsi sono stati uccisi i due nostri connazionali Piano e Failla.

L’uomo forte del governo di Tobruk, il generale ex gheddafiano Khalifa Haftar, assai benvoluto dall’Egitto di al Sisi, tentò dapprima di resistere prendendo in ostaggio il Parlamento di Tripoli e sequestrando venti deputati; poi fece bombardare una nave turca sospettata di trasportare razzi per le milizie del califfato. Altre tribù (centoquaranta!) presero possesso della parte del Paese, soprattutto il Fezzan, che sfuggiva al controllo delle fazioni di maggior rilievo. «La Libia ci esploderà in faccia», fu la previsione del presidente del Ciad, Idriss Déby. Per evitare che si realizzasse la profezia di Déby, noi occidentali abbiamo faticosamente elaborato un piano che prevede la formazione di un governo di unità nazionale (escluso Haftar) che dia una patente di legittimità a un nostro intervento contro l’Isis. Un piano che — come ci ha rinfacciato Ali Ramadan Abuzaakouk ministro dei Fratelli musulmani a Tripoli in una minacciosa intervista concessa al Corriere — è stato messo a punto dall’inviato dell’Onu Bernardino León il quale non ha dato prova di imparzialità accettando un’offerta di lavoro degli Emirati Arabi con un compenso per cui non patirà la fame: cinquantamila dollari al mese.

Tale progetto è stato successivamente ridefinito dal nuovo delegato delle Nazioni Unite, Martin Kobler, ispirato, secondo Abuzaakouk, da una visione non dissimile — nella sua perniciosità — da quella del predecessore. Sotto la guida di Kobler, le compagini di Tobruk e di Tripoli sono adesso impegnate a dar vita ad un unico governo che nella sua prima versione ha provocato ironie per il suo essere pletorico. Governo che non si sa dove avrà sede (in una fase iniziale a Tripoli) e che al termine di una laboriosissima gestazione dovrebbe limitarsi a schiacciare il pulsante della luce verde al nostro intervento. Un intervento che, peraltro, in forme appena dissimulate e in proporzioni modeste, è già in atto. Già questo è un modo di procedere che desta perplessità …

In ogni caso, prima di imbarcarci in questa impresa, è bene fermarci a riflettere ancora su due o tre punti. Primo: dalla caduta del muro di Berlino (1989) sono trascorsi ventisette anni nel corso dei quali l’Occidente ha combattuto numerose guerre che, eccezion fatta per quella balcanica, non hanno dato i risultati sperati. Nella maggior parte dei casi, anzi, hanno provocato autentiche catastrofi. E la Libia, come abbiamo provato a tratteggiare in estrema sintesi, è il peggior rovaio tra quelli in cui potremmo andarci ad infilare. Si può fare qualcosa di diverso perché la storia non si ripeta? Secondo: andiamo nella nostra ex colonia in rottura con Haftar nemico esplicito degli islamisti (cioè di coloro contro i quali dovremmo combattere) e protetto dall’Egitto; il che non farà che peggiorare i nostri rapporti con il Cairo già resi molto difficili dopo l’uccisione di Giulio Regeni. Un obiettivo intralcio alla nostra politica delle alleanze. Terzo: nessuno di noi ha fin qui reso pubblica un’idea condivisa di quale debba essere la meta di questo tragitto da compiere in armi. La divisione della Libia in tre o quattro Stati? Perfetto, ma allora perché non coinvolgere il nascituro governo libico in questo in modo che se ne possano conoscere da subito eventuali obiezioni? Da ultimo: all’Italia, a quanto si apprende, sarà assegnato il comando dell’operazione. È un grande onore. Anche se non guasterebbe un certo understatement nell’accogliere questo prestigioso incarico. E una coraggiosa valutazione delle conseguenze che esso porta con sé. Auspicheremmo infine che la missione di guerra venisse definita come tale. Rinunciamo per una volta a quei neologismi eufemistici con i quali noi e non solo noi abbiamo sempre battezzato le imprese militari. Chiamare le cose con il loro nome è una forma di assunzione di responsabilità. La prima. Forse la più importante.

Per inviare la propria opinione ai quotidiani, telefonare:
La Stampa 011/65681
Corriere della Sera 02/62821
Oppure cliccare sulle e-mail sottostanti 


direttore@lastampa.it
lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT