Riprendiamo da LIBERO di oggi, 05/03/2016, a pag. 24, con il titolo "I pregiudizi antisemiti nella letteratura del '900", la recensione di Gianluca Veneziani.
Emilio Cecchi
Il verbo del politicamente corretto, all'alba del secolo scorso, si nutriva di concetti dichiaratamente o implicitamente antisemiti e razzisti. Quel lessico era ispirato, da un lato, da forme di cultura alta che facevano capo al positivismo; dall'altro, traeva forza dal sentire comune, che si alimentava di pregiudizi radicati, spesso antitetici, come ad esempio la convinzione che gli ebrei appartenessero alle élite capitalistiche oppure ai gruppi bolscevichi e, in entrambi i casi, fossero pericolosi. Questi cliché e vizi linguistici crearono una sorta di humus culturale, un immaginario pre-politico, di cui poi si sarebbe servito il fascismo per costruirvi un'ideologia razziale e una legislazione ad hoc. E inevitabilmente attecchirono nel lessico colto della letteratura, infarcendo le opere pubbliche e gli scritti privati di intellettuali che respiravano l'aria del loro tempo ma insieme contribuirono a viziarla coi loro pregiudizi.
La copertina
Da questo clima non fu esente Emilio Cecchi, come attesta il documentatissimo saggio di Bruno Pischedda L'idioma molesto. Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale (Aragno, pp. 314, euro 20), presentato a Milano presso la Fondazione Memoriale della Shoah in un incontro organizzato da Studio legale La Scala e Toogood Society. «Le tracce del Cecchi antisemita e razzista», ci spiega Pischedda, «vanno cercate soprattutto nel backstage, nello sfondo della sua produzione, oltre i giochi di dissimulazione di cui lui, stilista supremo, era maestro. Nel '42, a esempio, nell'introduzione all'antologia Americana, Cecchi depreca "le nefandezze della promiscuità razziale", salvo poi correggere il tiro nella versione del '47, parlando in modo più neutro delle "tragedie della promiscuità razziale". Ancora, tra il '20 e il '22, Cecchi firma su La Tribuna, giornale liberale, due ritratti di antisemiti francesi come Léon Daudet e Urbain Gohier e, nella ricerca di materiale sul secondo, annuncia in una lettera all'amico monsignor Benigni: "Sarà anche bello, sulla Tribuna, vedermi far l'elogio di una pubblicazione antisemita".
Caratterizzata da pregiudizi antiebraici è pure la produzione pubblica di Cecchi, basti guardare il capitolo "Il giardino di Buddha" di Pesci rossi. Così come connotate da una condivisione dello spirito antigiudaico appaiono alcune sue scelte, come la partecipazione nel '42 al congresso di Weimar degli scrittori organizzato da Goebbels». A tale antisemitismo "perbenista" si associava un più dichiarato razzismo, che trapela nelle corrispondenze dall'estero per il Corriere della Sera: negli Usa paragona i «negri dalla grassa e lucida pece senegalese» a galli di «un pollaio enorme il quale pigola e stamazza» e a «cani» che «cominciano a uggiulare dal piacere, e scondinzolano e si scuotono»; in Libia descrive la voce delle donne come «un trillare di grilli o di raganelle».
D'altronde, questo regime linguistico era comune ad altri scrittori dell'epoca, si pensi a Vincenzo Cardarelli che scriveva su Il Tevere, il quotidiano antisemita di Telesio Interlandi, o a Giuseppe Tomasi di Lampedusa che - come riferisce Salvatore Silvano Nigro - in una lettera al cugino descriveva gli ebrei come «luridi, osceni, irrecuperabili».
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