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Corriere della Sera Rassegna Stampa
02.03.2016 Giorgio Bassani, l'autore e l'editor
Analisi di Antonio Debenedetti

Testata: Corriere della Sera
Data: 02 marzo 2016
Pagina: 38
Autore: Antonio Debenedetti
Titolo: «Bassani, l'arte di insegnare»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/03/2016, a pag. 38-39, con il titolo "Bassani, l'arte di insegnare", l'analisi di Antonio Debenedetti.

Giorgio Bassani è un grande classico della letteratura italiana del Novecento e viene unanimemente riconosciuto come tale. Gli autori di quella avanguardia degli anni '60 (a partire dal "Gruppo '63") che attaccarono violentemente Bassani e furono spesso propugnatori di una improbabile e autotelica sperimentazione, sono oggi semisconosciuti. I libri di Bassani, invece, sono riconosciuti come pietre miliari della nostra letteratura.

Ecco l'articolo:

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Antonio Debenedetti

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Giorgio Bassani

Bassani amava il romanzo, gli era fedele come si è fedeli a una religione. Non tollerava eresie. Enzo Siciliano, che amava il romanzo con eguale passione, imparò ascoltando Bassani e più tardi Attilio Bertolucci in che modo rendere attivi nel suo lavoro letterario i classici, le molte letture fatte nell’adolescenza. Con il suo amico Moravia, a proposito di libri e letture, il rapporto era diverso. Durante i loro frequentissimi incontri Alberto e Enzo si scambiavano opinioni su opere fresche di stampa, battibeccavano tenendosi reciprocamente informati.

Bassani non prescindeva dal culto della pagina ben costruita, senza licenze o sviste. Il Siciliano esordiente dei Racconti ambigui apprese proprio da Giorgio, suo editor d’eccezione, l’arte di correggere, riscrivere, pulire e rifare. Sia Giorgio che Enzo mitizzavano la scuola e la preparazione scolastica. Me ne convinsi un giorno sentendoli dialogare. Entrambi sostenevano, con un calore che mi sorprese, l’importanza formativa anche per uno scrittore d’un buon liceo. Dei bei voti in italiano e latino. Bassani si compiaceva, con l’aiuto della letteratura, d’un suo appena accennato snobismo, tanto più elegante perché «dorato» da un tono vagamente provinciale. Siciliano non sapeva viceversa dire di no alle tentazioni d’una mondanità più da salotto letterario che da quartieri alti. Entrambi avevano l’aria di perdonarsi, con divertimento, queste piccole, molto umane debolezze.

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Diciotto anni, oltretutto decisivi nella storia del costume italiano, separavano Giorgio e Enzo. Così quando si incontrarono, aiutati anche dalla differenza d’età, uno fu subito il maestro e l’altro il discepolo. Il rapporto che venne configurandosi finì con l’essere, in un certo senso, sostitutivo dell’amicizia. In che modo poi Bassani fosse maestro cercherò di dire in termini molto personali, lasciando parlare i miei ricordi anche più confusi. Alterati dal tempo e dai capricci della memoria. L’insegnamento di Bassani era anzitutto intimidente. Nell’insieme severo, senza negarsi quando occorreva alla cordialità del riso. Che dire? Il suo fare nascondeva, facendotela sentire nell’aria pronta a colpirti, la parola babbeo. Tu ti vedevi, quando era il caso, come un babbeo di proporzioni ciclopiche. A volte avevi l’impressione errata che Giorgio ti dicesse le stesse cose che ti diceva il tuo professore di liceo ma non era così. Bassani sapeva scatenare in te dubbi (salutari), insoddisfazioni (creative), sensi di colpa nemici delle scorciatoie e delle scelte culturalmente facili.

Ebreo ortodosso, fedele persino con intransigenza al suo passato politico nel Partito d’Azione, Giorgio aveva nel sangue la tradizione rabbinica e talvolta la ritrovava senza cercarla. Anche per questo forse non ti incoraggiava mai a titolo banalmente consolatorio. Spesso lasciava in te delle ombre, suscitava in te delle nubi temporalesche. Bassani, sarà bene precisarlo, era egoista e narciso come accade spesso agli artisti, salvo a farsi talvolta, per moralità, intellettualmente altruista. Magari quando gli chiedevi d’un tuo racconto, datogli con trepidazione in lettura, dopo averci pensato un attimo ti diceva: «L’ho perso, non ce l’ho, non so più dove l’ho messo. Mi spiace». Era un modo diverso e più impegnativo di farti capire che non gli era piaciuto. Era un modo però che lo coinvolgeva, lo costringeva a creare un rapporto più complesso e difficile con te di un cinico dire a mezza voce «bellissimo» e poi voltarti le spalle. Infischiandosene.

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Bassani, insomma, si responsabilizzava del suo rifiuto e in un certo senso si mostrava disposto a pagarne le conseguenze. A suo modo, dunque, Bassani finiva così con l’insegnare moltissimo ma a un prezzo davvero alto. «Che cosa ho sbagliato?» ti chiedevi dopo un incontro con lui, senza saperti dare una risposta. Avevi usato pigramente l’indicativo là dove, con un po’ di sforzo, ti saresti potuto allontanare dalla lingua parlata addentrandoti nella foresta insidiosa dei congiuntivi? Era la virgola che, collocata a senso, denunciava clamorosamente la tua imperizia? Dove avevi mancato insomma? Bassani te lo avrebbe detto ma non subito, non banalmente e in tempo perché tu ti potessi servire rapacemente dell’ammaestramento appena ricevuto, correndo ai ripari e correggendo il tuo sbaglio senza però aver imparato la lezione. Quando la consapevolezza dell’errore, che fosse semplice errore di grammatica o complesso errore di struttura, ti aveva attraversato come una stoccata, allora ti sentivi nuovamente pronto a cercare Giorgio. Capivi che non dovevi chiedergli infantilmente o narcisisticamente dei sì o dei no, delle assoluzioni o delle condanne utili sul piano pratico. Dovevi dialogare con lui da scrittore a scrittore, ascoltarlo come lui ascoltava te, contraddirlo come lui ti contraddiceva. Nella letteratura non ci sono grandi e piccoli, ci sono libri che a qualcuno sembrano belli mentre altri li trovano brutti. Bisogna credere nel proprio talento e armarsi culturalmente per difenderlo. Insomma. Bassani, almeno così a me sembra, credeva a una coraggiosa solitudine dello scrittore che ha un’unica arma: la sua pagina che deve adeguare, quanto più riesce, a una sua idea dello scrivere, del narrare, del fare romanzo o racconto.

A Bassani capitava talvolta di balbettare o meglio di inciampare in una parola facendo fare un salto al fluire del discorso. A volte però si serviva, almeno questa è la mia impressione, di quelle impuntature verbali anche per farti riflettere. Insomma, recitava. «Sei si-curo di quello che hai scrit-to?». La conclusione, sentendoti quel «sei si-curo» risuonare nell’orecchio, era un bisogno immediato di ritornare sulla tua pagina, di verificare e casomai di buttare via tutto ricominciando nella consapevolezza dell’errore commesso. Si possono fare innumerevoli varianti, questa l’idea di fondo, d’una stessa frase prima di trovare quella giusta. Correggere due tre cinque volte è importante, è difficile e non meno «eroico» che creare.

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Una volta, incrociando Enzo Siciliano che usciva da un incontro con Giorgio, intento a rivedere i Racconti ambigui che avrebbe poi pubblicato in una collana da lui diretta, lo trovai con le occhiaie che gli arrivavano al mento, stanchissimo, quasi incapace di parlare. Che cosa fosse successo posso solo ricostruirlo e immaginarlo sulla base di esperienze personali. Bassani editor poteva a volte, decidendolo all’improvviso, mettersi a leggere con voce piena e forte un tuo capoverso facendo delle sottolineature con la sua dizione. Quella lettura diventava all’improvviso uno specchio nel quale vedevi riflessi, ingigantiti e finalmente lampanti certi tuoi difetti naturali (ogni scrittore ne ha e sono quasi ineliminabili). Ti rendevi conto di quelli che difetti non erano ma anzi costituivano delle tue prerogative da non disprezzare anche se potevano inquietarti per la loro originalità. Saltavano purtroppo fuori anche le goffaggini, peggio i malvezzi nati dal poco rispetto di sé o da una sottovalutazione del proprio lavoro di scrittore. Contro questi peccati di noncuranza, di ignavia l’autore degli Occhiali d’oro era implacabile.

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La lezione più bella o quanto meno più naturale e impagabile di Bassani l’ho potuta tuttavia godere al ristorante, sedendo a tavola di fronte a lui e a Attilio Bertolucci. La raffinata cultura cosmopolita di Attilio, che non sapeva resistere alla tentazione di civettare in modo creativo e maliziosamente ironico con la sua origine provinciale, incontrando il bon ton ebraico di Bassani, produceva effetti speciali davvero indimenticabili. Era una festa di richiami, di citazioni intrecciate a riferimenti sottili, a giudizi fatti di sorrisi e di mezze parole. E nomi, e nomi, e nomi che portavano con loro il ricordo di stagioni più o meno lontane del gusto e della cultura. Una girandola. Giuseppe Verdi e Roberto Longhi, Bruno Barilli e Emilio Cecchi, Cesare Garboli e Mario Soldati, Elsa Morante e Pasolini con molti, molti altri ancora che inseguendosi davano luogo a quasi una storia dell’anima e del costume italiani dotta e morbida, insinuante e leggera. A tavola sedeva anche Siciliano. Così, quando da quel dialogare saltò fuori il nome di Stendhal, non resistette: lasciò che sulle sue labbra si dipingesse un sorriso estasiato. Quello era il suo mondo, Bassani e Bertolucci erano i suoi veri maestri e in quel mare nuotavano finalmente in perfetta armonia tra loro l’erudito e lo scrittore, che in Enzo a volte viceversa confliggevano dispettosamente.

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