Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/02/2016, a pag.I, con il titolo " Il nemico perfetto (o no)" il ritratto di Angelo Panebianco di Maurizio Crippa.
Maurizio Crippa Angelo Panebianco
Poiché siamo ancora nell’ottava liturgica (liturgia laica) della dipartita del Maestro, e poiché almeno la colleganza presso l’Alma Mater Studiorum li apparentava (soltanto quella, e l’amore per i libri, viene da supporre), si potrebbe partire da un breve saggio di Umberto Eco, uscito nel 2012, che si intitola “Costruire il nemico”. Scriveva il semiologo, che di costruzioni e decostruzioni, di complotti e messaggi in codice se ne intendeva: “Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro”. Quale sia il sistema di valori condiviso da coloro che hanno deciso, e non da ieri, di costituirlo nemico in effigie, e poi anche in solido, lo ha definito il professor Angelo Panebianco medesimo, sul Corriere della Sera di giovedì: “Costoro nemmeno sospettano quanta muffa e quante ragnatele ci siano in quegli slogan”. Muffa è un termine azzeccato, poiché le ragnatele emergono da un passato ormai quarantennale, ma che fa ancora tendenza, quantomeno a Bologna, città politicamente eterna. Così l’indimenticato Franco Bifo Berardi, leader della protesta “creativa” nella Bologna del Settantasette, s’è fatto vivo su Facebook: “Dobbiamo stupirci se si è messo a strillare qualcuno degli studenti che stanno pagando con la precarietà e la miseria le scelte dell’Europa finanziaria, e che domani pagheranno con la vita le scelte dell’Europa militare? Mi preoccupano molto di più tutti quegli di Maurizio Crippa studenti cui la disperazione ha tolto perfino la voce e la dignità di ribellarsi”. Bifo non è un passante – coetaneo di Panebianco, 1949 il primo, 1948 il secondo – fondava Radio Alice nello stesso anno in cui Panebianco iniziava a insegnare come professore incaricato di Scienza politica all’Università di Bologna. Il passato è inamovibile, in città, come ha ricostruito Marco Imarisio per il Corriere: “Il Cua (il Collettivo universitario autonomo responsabile del primo tentativo di interrompere la lezione di Panebianco, ndr) è la diretta filiazione del centro sociale di ispirazione autonoma Crash, nasce come sua emanazione universitaria una decina di anni fa prendendo possesso di due locali dell’Ateneo, un soppalco della biblioteca di discipline umanistiche al numero 36 e un’aula al pianterreno del civico 38”. Volendo fare un altro passo nell’archeologia delle ragnatele, si ritrova pure Mario Capanna (qui gli anni à rebourdiventano cinquanta), lesto e molesto a radio “Zanzara”: “Panebianco è un bellicista, ha scritto che le unificazioni politiche non si fanno col burro ma con i cannoni”, ha detto rivendicando un’antica condanna a undici mesi per sequestro di persona di un professore: “Ne sono orgoglioso è un grande onore essere finito in galera”. Ma il Sessantotto, con Angelo Panebianco, non è una citazione qualsiasi. Resta il problema della costruzione del nemico, della character assassination. Che è serio. Perché il professor Angelo Panebianco è allo stesso tempo il nemico perfetto, e non lo è. E bisogna cercare di capire la coesistenza, nella stessa persona, delle due cose. Scriveva Umberto Eco che Prisco di Panion nel V secolo dopo Cristo descriveva Attila “come basso di statura, con un largo torace a una testa grande, gli occhi piccoli, la barba sottile e brizzolata; il naso piatto”. Lo incuriosiva il fatto che il volto di Attila fosse simile “alla fisionomia del diavolo quale lo vede più di cinque secoli dopo Rodolfo il Glabro, di modesta statura, collo esile, volto smunto, occhi nerissimi, fronte increspata da rughe”. Angelo Panebianco condivide con Attila (e col diavolo) il pizzetto, più bianco che grigio, gli occhi lievemente infossati e il naso non fidìaco, sotto gli occhiali sottili. Per il resto, è prevalenza non esattamente barbarica di giacche in tweed, da signore di campagna, e di composte spettinature da intellò, non ricercate. E’ l’archetipo del professore dell’immaginario novecentesco, a partire dall’Immanuel Rath dell’“Angelo Azzurro” di Von Sternberg (ma solo per il look, eh!), nulla di meno minaccioso e luciferino. Lui che vive da sempre con la famiglia nella sua Bologna, che ama la montagna, che da tempo ha rinunciato pure al sigaro (altro segnacolo accademico). Ed è forse anche per questo, perché troppo riservato fino a non avere un’immagine spiccatamente pubblica, che è il nemico perfetto. Una firma in cima a un editoriale del maggior quotidiano nazionale, uno che tiene corsi che si intitolano “Teorie della pace e della guerra”. O perché l’unica cosa di cui va orgoglioso, e ci tiene a dire di sé, “sono i miei libri, il mio lavoro accademico, oltre a insegnare, ovviamente. I libri scientifici su cui lavoro anni, l’ultimo è del 2009, il prossimo su cui lavoro da tempo uscirà tra un paio d’anni, e lo leggeranno duemila persone, se sarà tradotto in inglese. Di questo vado orgoglioso”. Non apparire, ma anche non personalizzare. Ha il culto – anche rispetto ad altri colleghi politologi, come un Ernesto Galli della Loggia – di tenere separate non solo l’accademia dall’attività pubblicistica, ma anche l’attività pubblicistica dalla polemica ad personam. Non è facile fabbricarsi un nemico da una persona così, ma diventa più facile per qualche imbecille strillare: “Cosa direbbe lui se in una università italiana venisse invitato al Baghdadi? Si schiererebbe a fianco della libertà di espressione?”. Poi però c’è l’Angelo Panebianco – il professore politologo ed editorialista di impostazione liberale Angelo Panebianco – che l’avversario perfetto di un certo tipo d’Italia, politica e culturale, non può che essere, e lo è sempre stato. E’ la storia del suo pensiero, dei suoi studi, del suo modo di porsi. La sua biografia (im)politica, si potrebbe dire, poiché la politica dei politici, in fondo, non gli è mai piaciuta: ha argomentato più volte che sovente la politica è il luogo in cui si scaricano, personalmente o comunitariamente, ansie e frustrazioni da insuccessi maturati altrove. Così che anziché luogo dove maturano soluzioni razionali a problemi generali, si riduce a luogo di sfogo irrazionale e di scontro. Non è uno che debba farsi perdonare qualcosa. Non ha sospetti di “ex-eità” da fugare. Da questo punto di vista, la biografia di Panebianco è di una linearità disarmante. Ha iniziato radicale, con altri futuri intellettuali di primo piano come Massimo Teodori (del 1977 è uno dei suoi primi libri, importante, “I nuovi radicali”, scritto proprio con Teodori e Piero Ignazi). Ma se ne andò presto, quando il partito di Marco Pannella virò verso un certo profetismo, e a lui il profetismo non piace, e verso una linea di movimento carismatico che già nel 1979 lui e Galli della Loggia ebbero a criticare “weberianamente”. Ma de Marco nisi bonum,pure da vivissimo, per il professore. Seppure costituisca una sorta di record l’essere riuscito a mettere d’accordo in una uguale detestatio nei suoi confronti due eterni nemici tra loro: Pannella ed Eugenio Scalfari. Il lavoro di ricerca negli Stati Uniti e a Londra, la carriera accademica, i maestri preferiti, Raymond Aron, Max Weber, l’approdo al Corriere della Sera di Piero Ostellino, sponda liberale. Ma è poi con Paolo Mieli, dal 1992, che il suo ruolo emerge. Mieli arrivò dalla Stampa di Torino portandosi Galli della Loggia e Sergio Romano. Più sfaccettato per carriera e biografia il profilo di Romano, divennero però la triade liberal-democratica che doveva consentire al Corriere di tenere la barra negli anni della Seconda Repubblica. Il ménage virtuoso proseguì con la prima direzione di Ferruccio De Bortoli, con la seconda Mieli, con la seconda De Bortoli. Va avanti tuttora. Le sue bordate sempre puntuali, analitiche. Le sue analisi sempre equilibrate, che hanno spesso l’effetto di bordate nel pasticciato e insincero mondo della politica nazionale. Furono gli anni del berlusconismo, e il suo non essere pregiudizialmente ostile a chi – nel gioco della democrazia liberale – avanzava la pretesa di governare senza demonizzazioni gli costò il marchio di cripto-berlusconiano. Furono gli anni del cespuglioso trasformarsi della sinistra da ex comunista in ulivista. Lui, liberale, osservò con imparzialità. Erano anche, i primi anni Novanta, quelli in cui maggiormente fu impegnato, fino al comitato di direzione, nel Mulino di Edmondo Berselli (e anche di Romano Prodi). E ci furono bei dibattiti e pure tensioni interne, quando dalla fucina bolognese che era stata di Nino Andreatta sbocciò l’Ulivo prodiano. Ma questa è un altra storia da raccontare. Furono gli anni, anche, delle accuse di “terzismo”, categoria inesistente ma ritagliata alla perfezione su Paolo Mieli e sul suo gruppo corrierista. Tempo dopo, nel 2004, Panebianco ebbe a scrivere, rispondendo a Michele Salvati: “Ha criticato i cosiddetti ‘terzisti’, termine improprio che, nel linguaggio giornalistico corrente, identifica alcuni intellettuali che alla militanza partigiana preferiscono l’analisi critica dei problemi pubblici e si sforzano di giudicare, armati solo di un pregiudizio a favore dei principi liberali, le politiche degli opposti schieramenti”. Ed era, politologicamente parlando, tutto qui, per il professore. Eppure divenne la bestia nera, il nemico perfetto, il cripto-berlusconiano, la quinta colonna perfetta. Lui, l’analista che definì il Cavaliere “il Conte Ugolino della politica”, ma che al momento della decadenza scrisse: “Solo una combinazione di mancanza di senso storico e di miopia politica, di incapacità di guardare al di là del proprio naso può fare pensare che non avrà effetti di lungo termine sulla democrazia italiana il fatto che un leader che ha rappresentato e rappresenta milioni di elettori sia stato messo fuori gioco per via giudiziaria anziché politica”. Ma tanto bastava, anche prima. La sua netta critica dei toni e i modi del partito di Repubblica – l’arma politico-giudiziaria innanzitutto – non potevano essere accettati in pacifico contraddittorio. Per ricordarsi le cose bisognerebbe rileggersi “La Repubblica di Barbapapà” di Giampaolo Pansa, anno Domini 2013, uno che li conosceva bene: “La riflessione di Panebianco si apriva con una serie di quesiti che disegnavano, sia pure con tanti punti interrogativi, un possibile identikit dei repubblicani al comando di Topolino: ‘Giacobini in sedicesimo? Tardi eredi di un radical-azionismo (filone torinese) di cui hanno estremizzato e portato al parossismo i temi e i toni nell’affrontarli? Spregiudicato gruppo affaristico-giornalistico a suo tempo legato a una certa Dc e al Pci, oggi all’Ulivo?’. L’opinione di Panebianco era netta: ‘Il gruppo che fa capo a Repubblica, salvo poche eccezioni, è portatore di uno stile polemico inconfondibile. Consiste nella sistematica criminalizzazione di chi non la pensa come loro. I repubblicani non conoscono avversari con cui è possibile polemizzare, conoscono solo nemici da abbattere”. E va detto che in quel “salvo poche eccezioni” c’è tutto lo stile di Panebianco. Al contrario, gli archivi della memoria tramandano di quella volta che Eugenio Scalfari trascese, e appellò il professore con l’arguto nomignolo di “Panenero”. Erano gli anni in cui l’invincibile armata del Gruppo Espresso combatteva pure con le truppe di complemento. Nella sua indimenticabile rubrica “Portfolio” sul settimanale della casa, Maria Laura Rodotà amava chiamare Panebianco “il professore col borsello”. E vi si legge l’archetipo della costruzione del nemico in effigie. Perché non è sempre facile, con un avversario che sempre tiene distinto l’accademico dal politico, mantenere il tono adeguato. E’ accaduto ancora in tempi recenti, quando Panebianco non s’è accodato alle urla degli anti-casta e ai fini esegeti del grillismo (pure quelli del Corriere), né tantomeno ha preso sul serio la mistica caciarona di Mafia Capitale. Così come continua a non piacere a certa sinistra, quando annota che anziché sbraitare sul renzismo come partito unico di governo occorrerebbe, per chi lo volesse fare, proporre un’alternativa non demagogica. E fino alle riflessioni di lucido realismo sulla guerra che già esiste, in Libia, e alla quale bisogna essere pronti, che hanno fatto agitare dentro alle ragnatele le anime brutte di un Sessantotto che “per noi non è durato un anno ma un decennio”. Non ama le frasi fatte, “non bisogna farsi intimidire, eccetera, eccetera”. Così anche sugli avvenimenti dei giorni scorsi all’Università ha preferito intervenire a freddo: “Inizio con qualche osservazione di carattere generale sul rapporto fra estremismo politico e democrazia”, ha scritto sul Corriere. Professore. (Dimenticavamo: “The Hateful Eight” di Tarantino l’ha visto, gli è piaciuto. Un vero seminatore d’odio, con ogni evidenza.
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