Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/02/2016, a pag. 41, con il titolo "Indigniamoci anche per il poeta Fayad", il commento di Paolo Di Stefano.
I palestinesi interessano all'opinione pubblica soltanto quando, per loro mezzo, è possibile accusare Israele di qualcosa. Se, come nel caso di Fayad, vengono incarcerati per "blasfemia" in Arabia Saudita, non interessano a nessuno, e meno che mai ai "pacifisti" di ogni latitudine.
Ecco l'articolo:
Paolo Di Stefano
Ashraf Fayad
Siamo pronti a indignarci per (quasi) tutto e giustamente a protestare. Specie quando si parla di libertà d’espressione. Pensate al caso di Salman Rushdie, lo scrittore angloindiano colpevole di empietà per i suoi «Versi satanici», condannato a morte dall’ayatollah Khomeini e costretto a vivere sotto protezione da 27 anni. In quel 1989 si mobilitarono gli intellettuali, la politica, l’opinione pubblica internazionale, le tv. Il Parlamento europeo si espresse con una risoluzione ad hoc contro l’Iran e la fatwa. Ebbene, sembrano passati secoli da allora, se è vero che analoghe condanne si ripetono, anzi diventano operative contro altri scrittori e artisti. E poco se ne sa. Tanto meno in Italia. Prendiamo il poeta e artista palestinese Ashraf Fayad, 35 anni, che si trova da oltre 24 mesi nel carcere di Abha, in Arabia Saudita: grazie agli appelli dei suoi avvocati e di Amnesty International, la condanna alla decapitazione per apostasia e diffusione dell’ateismo è stata commutata, qualche giorno fa, in otto anni di prigione e 800 frustate (in 16 serie da cinquanta: una punizione spesso fatale). Oltre all’obbligo di sottoscrivere una dichiarazione di pentimento da pubblicare sui media.
Nella raccolta di poesie «Istruzioni interne», Fayad avrebbe mostrato «propositi blasfemi, distruttivi contro Dio». In realtà, i suoi sostenitori ritengono che sia stato arrestato dalla polizia religiosa, il 6 agosto 2013 in un caffè della sua città, per avere postato su YouTube il video della fustigazione di un uomo. Il caso del poeta palestinese sembra non pervenuto nei media italiani. Eppure non più di un mese fa dieci città hanno aderito all’iniziativa in sostegno di Fayad: una catena di letture in suo onore promossa dal Festival internazionale di letteratura di Berlino. Mobilitazione lodevole di cui non si è saputo quasi nulla in Italia, dove per altro lo stesso Fayad nel 2013 ha rappresentato il suo Paese alla Biennale di Venezia. Che succede? La nostra capacità di indignazione è scemata? Dove sono gli editori che nel caso di Rushdie salirono eroicamente sulle barricate in difesa della libertà di parola? Possibile che nessuna casa editrice italiana abbia sentito il dovere (etico, civile, politico, poetico…) di dare un’occhiata al libro di Fayad, pubblicato a Beirut, nel 2008? Forse ne varrebbe la pena, anche se non promette i numeri di Rushdie. Il quale un paio di mesi fa ha detto che se il suo romanzo «blasfemo» fosse uscito oggi, non avrebbe ottenuto la solidarietà di allora.
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